La destra dei vecchi e la sinistra nuova

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Ma è poi così difficile capire perché il mondo va a destra? O, ancora più esplicitamente, come si chiede quasi esasperato Ezio Mauro su “Repubblica”: “Ci sarà pure un modo nel ‘nuovo’ salvando le ragioni di una storia di popolo e di Paese, e rinnovando il patto di libertà della nostra civiltà democratica?”. Sono domande che affiorano da una geografia politica in cui sembra che la sinistra sia assente, lontana spettatrice di dinamiche che non sembrano coinvolgerla.

Forse, rispondendo a Mauro, verrebbe da dire che, se c’è un modo per tornare in campo, sicuramente questo non prevede di confermare lo stesso popolo e lo stesso patto democratico che abbiamo alle spalle. Da almeno quarant’anni, ogni volta che accade una capriola della storia, o almeno che a noi di sinistra sembra tale, ci stropicciamo gli occhi, scuotiamo il capo e intimamente pensiamo che nel mondo tutti stiano andando contro senso – meno noi. E ci chiediamo come si possa svegliarci dall’incubo, ricominciando da dove ci hanno interrotto. Una delle chiavi che spiega come invece, hegelianamente, il reale sia razionale ci viene dai dati demografici che ci inseguono da alcuni decenni, benché si tenda sempre a ignorarli nelle nostre discussioni. Sono i numeri della realtà che hanno spiazzato una cultura che sui processi sociali aveva fondato il suo primato. Fra i fatti nuovi, e la tradizione vecchia, abbiamo sempre scelto la seconda, ignorando i primi.

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L’ultima ricerca dell’accreditatissimo ufficio studi della Cgia di Mestre propone un fatto che dovrebbe costringerci a rivedere ogni nostra tradizionale elaborazione, dinanzi a un quadro che, cocciutamente da anni, ci sta spiegando, con la forza persuasiva della materialità degli interessi sociali, perché stiamo diventando, come campo progressista e democratico, stranieri in patria. In soli dieci anni, hanno calcolato i ricercatori di Mestre, l’Italia ha perso circa 750mila giovani (15-34 anni), un buco dovuto quasi esclusivamente alle regioni meridionali, quelle che, fino a qualche decennio fa, avevano un tasso di procreazione più alto che nel Nord. Il paradosso è spiegato dal fatto che il calo delle nascite molto chiaro, nelle regioni settentrionali, viene compensato da una robusta immigrazione extra-europea e da un ormai continuo e inesorabile flusso di giovani che arrivano dal Mezzogiorno.

Questa tendenza indica che, nei prossimi anni, vedremo le aree meridionali – in maniera particolare, ma tutto il Paese complessivamente – ridursi seccamente come popolazione, e soprattutto le vedremo invecchiare socialmente, con una carenza strutturale di giovani. Stiamo convivendo, da almeno un ventennio, con una riduzione drastica delle nascite: in questi ultimi anni, abbiamo praticamente dimezzato le culle rispetto ai più terribili anni della guerra – 1943-44 –, quando le condizioni di vita e le prospettive di futuro erano drammaticamente peggiori.

Forse più che intorno al terzo mandato la sinistra farebbe meglio a ragionare sulla terza età. L’innalzamento dell’età media, che supererà abbondantemente gli ottant’anni, più che il risultato di un positivo prolungamento del tempo di vita, sarà la conseguenza di una rarefazione dei giovani. Un fenomeno, questo, che spiega bene perché prevalgano ormai le paure di impoverimento rispetto alla rabbia di povertà, la protesta contro lo Stato fiscale rispetto alla rivendicazione di un welfare più efficace ed egualitario.

L’aumento della vita media porta inevitabilmente le popolazioni a concentrarsi sulla difesa della proprietà, che sarà sempre più concentrata e rilevante per i pochi eredi che si spartiranno quote crescenti di beni immobiliari e finanziari (vedi qui) piuttosto che sulle aspettative innovative. Avremo più tutela della rendita che ricerca di profitti, più rancorosa difesa di quello che si ha che inclusione sociale e apertura al mondo. Con una geografia differenziata. Mentre al Nord, come accade da tempo, si potrà ancora articolare una dialettica fra un campo progressista, che si appoggia proprio sui contributi dei nuovi arrivi che mitigano la recessione demografica, e un campo reazionario, che tenderà ad arroccarsi nella difesa delle proprie risorse da minacce esterne, al Sud, dove la perdita di quote di giovani sarà irrimediabile, assisteremo a un’ulteriore radicalizzazione reazionaria, in cui prevarranno gli istinti di accaparramento di beni e servizi rispetto alla ricerca di sviluppo ed emancipazione.

L’inverno demografico è una delle ragioni più spettacolari dell’avvento della destra, che può trovare una spinta propulsiva da una base sociale che scambia il godimento del presente contro ogni aspettativa di futuro. La rinuncia ai figli, che sta diventando un tratto di connessione fra ricchi e poveri, segna la vera sconfitta culturale, antropologica, della cultura di sinistra. Non sono le difficoltà economiche, il senso del limite, a ridurre la propensione a riprodursi, ma il semplice egoismo di non disperdere le proprie risorse, la scelta di galleggiare in una società di alti costi eliminando il costo del proprio futuro. Una forma di darwinismo sociale che, incontrando le nuove modalità tecnologiche, determina una sorta di eugenetica digitale.

Si è infatti innestata una combinazione di puro segno reazionario, in cui la tecnica diventa l’unica forma per sostituire la riproduzione sociale. L’opzione transumanista, che mira a una tutela di chi è già nato, a cui si prospetta un prolungamento della vita, vissuta come una vera alternativa al prolungamento della specie mediante la riproduzione. È una visione terribilmente reazionaria, a cui una sinistra edonista, che volle farsi cittadina di questo mondo moderno, partecipando ai suoi riti consumistici, ha dato un contributo non irrilevante, appiattendo una visione critica di questi stili di vita e disperdendo ogni cultura alternativa verso un mercantilismo esasperato.

Senza maramaldeggiare – e nessuno di noi ne avrebbe titolo –, potremmo rispondere alla disperazione di Mauro, “ma non era proprio ‘Repubblica’ l’alfiere di questa vita da bere? non furono i liberaldemocratici a rimproverare alle superstiti testimonianze antagonistiche dei comunisti italiani la loro anomalia, la loro antiquata differenza?”. E ora, arrivati in fondo alla corsa, cosa ci rimane?

Il mondo va a destra perché ci siamo rassegnati che la destra sia il mondo. Questa è la conseguenza dell’omologazione. Così come appare ancora più patetico il tentativo di aggirare questo problema continuando con le miserie politiciste, in cui si cerca sempre un colpo a effetto per tornare al centro della scena. Sarà davvero un accordo elettorale a salvarci? Potrà un guadagno di un paio di punti rovesciare le proiezioni future sulla convivenza nel mondo? Mai come oggi la barbarie del presente ci ricorda che, come diceva Claudio Napoleoni, solo con la lucida certezza di non avere niente da preservare, potremmo cercare ancora una via che ci porti dalla parte opposta a quella dove stiamo andando.

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