Donne vinte da un gesto omicida, ovvero l’amore secondo Stendhal

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I maschi letterari di Francesco Piccolo raccontati in “Son qui: m’ammazzi” e “Il rosso e il nero”, romanzo non meno magnifico quando lo si legga anche come un documento della psicologia del suo autore


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Caro Francesco Piccolo, ho riempito una dozzina di quaderni sul rapporto fra maschi e femmine: troppo. Dunque, per un argomento così, troppo poco. Tu, per esempio, hai trovato la misura e le sue variazioni. L’ultima volta mettendo nelle sole 140 pagine del tuo libro ben tredici libri altrui, di scrittori maschi. (“Son qui: m’ammazzi”, Einaudi, recensito qui vivamente da Annalena Benini).

Il Vittorio Imbriani, “Dio ne scampi dagli Orsenigo” (1876), non l’ho letto. Vedo che il protagonista “diventa violento… e lei continua a esser convinta che ogni atto del suo uomo è una dimostrazione d’amore. A un certo punto Imbriani dice che lui la picchia, e che le donne picchiate si innamorano ancora di più”.

Sappiamo che prima di persuadersi della necessità di reagire alle botte dei “loro” uomini, e prima che la società desse loro qualche possibilità di reagire, molte donne hanno pensato così. O piuttosto: si sono dette, e hanno detto alle altre, agli altri, che le botte che prendevano erano una prova dell’amore dei loro uomini. Mi sono corretto, perché credo piuttosto che le donne non l’abbiano mai pensato, ma l’abbiano detto agli altri, alle altre, a chi vedeva e sapeva, compresi i figli, e che prima di tutto l’abbiano detto a sé stesse, perché era l’unico tentato risarcimento al dolore e all’umiliazione. Lividi esibiti come prove di attaccamento: di amore. Di pensieri così, dell’Imbriani, o dei proverbi – ricordati di picchiare tua moglie, lei sa perché – sono pieni i verbali raccolti dalle poliziotte o dalle volontarie delle case rifugio.

Ma i grandi scrittori maschi si sono spinti spesso anche a spiegare che le donne, e le più nobili fra loro, “si innamorano di più” al pensiero che il loro uomo sia pronto a ucciderle. Estraggo un paragrafo da uno dei miei dodici quaderni, che mostra quanto sia radicata nella nostra cultura, anche nella migliore, la nobilitazione dell’uomo che “per amore” uccide la donna – e la suggestione per cui la donna se ne sente gratificata! Tratta di un romanzo dei più belli e amati, e da me prediletto: “Il rosso e il nero” di Stendhal.

Ricorderai che si conclude con la decapitazione di Julien Sorel, che ha sparato, ferendola ma senza ucciderla, alla sua prima amante, la signora de Rênal. Julien è il giovane di origini umili e paesane, dotato di genio e ardire, che una generazione prima sarebbe andato alla conquista del mondo come il suo idolo, Napoleone. Si può pensare che Napoleone avesse giocato così temerariamente con la carta geografica per conquistarsi un impero, o una signora parigina e un’arciduchessa. A Julien l’impero è negato, resta da espugnare una signora del capoluogo e una ereditiera parigina. Le umiliazioni che subisce, in altri tempi, “hanno fatto i Robespierre”: fra sé e le azioni più eroiche, egli non vede che la mancanza dell’occasione. Un’energia sublime lo anima, di quelle che fanno fare cose straordinarie. Inattuale com’è, lo destina invece a un disastro da Gazzetta dei tribunali.

L’idea del delitto d’onore fa però la sua prima comparsa col grossolano signor de Rênal, che finalmente sospetta di sua moglie e Julien: “Posso sorprendere questo contadinello con mia moglie, e ucciderli tutti e due; così la tragedia cancellerà magari il ridicolo. L’idea gli sorrise, la seguì in tutti i dettagli. Il Codice penale è dalla mia…”. A sua volta, Mme de Rênal, che deve dirottare su un altro rivale i sospetti del marito, gli scrive: “Quando le lettere che avete intercettato provassero che io abbia corrisposto all’amore di M. Valenod, voi dovreste uccidermi, l’avrei meritato cento volte”. Calcolata volgarmente dalla parte di lui, simulata temerariamente dalla parte di lei, questa coincidenza del codice penale con quello morale fa da implicita premessa agli svolgimenti futuri.

Intanto bisogna che Julien prenda il largo, fino al palazzo parigino in cui la marchesina de la Mole, nostalgica delle glorie dei suoi avi medievali, vagheggia a sua volta destini sublimi. “Non vedo che una condanna a morte che distingua un uomo, la sola cosa che non si compri”. Mathilde guarda i giovani bennati della sua cerchia chiedendosi: “Chi di loro potrebbe farsi condannare a morte?”. Uno c’è, il provinciale Julien, e Mathilde gli si concede, salvo pentirsene capricciosamente come di un cedimento a chi è indegno di lei, e lo punisce col suo disprezzo. Julien è ora abbandonato, umiliato ed esasperato, ed ecco la scena madre.

Ho orrore di essermi data al primo venuto, gli ha detto Mathilde: “Al primo venuto! Gridò Julien, e si lanciò su una vecchia spada del medioevo, che si conservava come una curiosità nella biblioteca. Il suo dolore… era ora centuplicato dalle lacrime di vergogna che la vedeva versare. Sarebbe stato il più felice degli uomini se avesse potuto ucciderla. Nel momento in cui estraeva la spada, con qualche fatica, dal fodero antico, Mathilde, felice di una sensazione così nuova, avanzò fieramente verso di lui: le sue lacrime si erano asciugate”. Julien rimette la spada nel fodero. “Tutto questo movimento, molto lento sul finire, durò certo un minuto; Mlle de la Mole lo guardava stupefatta. Dunque sono stata sul punto di essere uccisa dal mio amante! si diceva. Questa idea la trasportava nei più bei tempi del secolo di Carlo IX e di Enrico III”.

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E’ notevole la ripetizione dell’aggettivo: heureux, heureuse, l’uomo più felice lui se l’avesse uccisa (“Il eût été le plus heureux des hommes de pouvoir la tuer”), la donna felice, lei, d’esser stata sul punto di venir uccisa (“Mathilde, heureuse d’une sensation si nouvelle / … / J’ai donc été sur le point d’être tuée par mon amant! se disait-elle”). La coincidenza si è fatta più stretta: il raptus di Julien – direbbe così oggi la Gazzetta dei tribunali – si è fermato alla soglia, ma è bastato a far sentire a Mathilde l’imminenza della morte, e così a riconquistarla. “Mademoiselle de la Mole rapita non pensava che alla felicità d’esser stata sul punto d’essere uccisa. Arrivava fino a dirsi: è degno d’essere il mio amante / il mio padrone? /, perché è stato sul punto di uccidermi”.

Ora andiamo verso la conclusione. Julien parte alla volta della sua provincia, deciso a punire Mme de Rênal, che si è intromessa fra lui e Mathilde descrivendolo come un poco di buono. Dunque nemmeno le gazzette più indulgenti potrebbero ora invocare il raptus, perché Julien premedita da lontano i suoi colpi di pistola. Che per fortuna non sono mortali, come lui si è proposto. Nel momento stesso in cui li esplode, Julien si accorge di aver ingannato se stesso, e che la sola donna che abbia amato e ancora ami è lei, la signora de Rênal. Dunque non è per vendetta che ha premeditato di ucciderla e le ha sparato, ma per amore. Julien lo rivendica col giudice: “Ho dato la morte con premeditazione; ho comprato e fatto caricare le pistole da un armaiolo. L’articolo 1342 del Codice penale è chiaro, io merito la morte, e l’aspetto”. Ed ecco ricomparire la simmetria della sala d’armi del palazzo de la Mole, con la spada sfoderata e rinfoderata; questa volta è la più appassionata e iperbolica, spogliata com’è dei pretesti dell’orgoglio e della superbia. “Morire per la mano di Julien, è il colmo della felicità” – pensa la signora de Rênal. E lui: “L’ambizione era morta nel suo cuore, un’altra passione era sorta dalle sue ceneri; lui la chiamava il rimorso di aver assassinato Mme de Rênal. In realtà, ne era perdutamente innamorato”.

Il loro amore può finalmente, seppure in una cella e con la condanna a morte sul capo di lui, spiegarsi senza riserve. “… ora che ti vedo, anche dopo che mi hai tirato due pistolettate… E qui Julien la coprì di baci”.

Non è solo l’amorosa Mme de Rênal a essere vinta dal suo gesto omicida (femminicida, ora diciamo, con questa parola brutta ma inevitabile, che Stendhal avrebbe trovato solo brutta), ma le donne in genere, come dice a Julien il suo bravo confessore giansenista: “La vostra età / Julien ha ora 23 anni! /, l’aspetto interessante che la Provvidenza vi ha conferito, il motivo stesso del vostro crimine, che resta inspiegabile, i passi eroici che Mlle de la Mole prodiga per voi, tutto insomma, fino alla sbalorditiva amicizia che vi mostra la vostra vittima, tutto ha contribuito a fare di voi l’eroe delle giovani donne di Besançon. Hanno dimenticato tutto per voi…”.

“Il rosso e il nero” è un magnifico romanzo psicologico: non è meno magnifico quando lo si legga anche come un documento della psicologia del suo autore. Mi auguro che non si prenda la rilettura che suggerisco come un’imputazione a Stendhal – e a tanti altri supremi scrittori – di incitamento al femminicidio… Piuttosto suggerisco la rilettura a noi uomini, e magari poi ne discuteremo con le rilettrici donne.





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