Mobbing durante la gravidanza gemellare: la storia di Anna e il fenomeno a Nord Est

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Alla fine si è licenziata. Anna, nome di fantasia, ha subito mobbing da parte del suo datore di lavoro soltanto perché era in dolce attesa di due gemelli.

A lavoro, battute spiacevoli del datore di lavoro davanti a tutti i colleghi e poi, durante la maternità, i ritardi con il pagamento dello stipendio e infine quel messaggio ricevuto sul telefonino da parte del manager: “I calcoli li faccio anch’io.. prima devo guardare le cose più importanti e dopo se posso faccio il tuo stipendio“.

Anna, residente in provincia di Treviso e ex dipendente di una ditta trevigiana, è rimasta incinta ad aprile 2024 e, con entusiasmo e trasparenza, ha subito informato il suo datore di lavoro. Ma quella che doveva essere una felice notizia si è presto trasformata in una fonte di stress per lei e per suo marito.

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La vicenda 

A giugno, su consiglio del suo ginecologo, ha deciso di entrare in maternità anticipata per cercare di prepararsi a quella che poteva essere, a tutti gli effetti, una gravidanza e un parto complicato.

La scelta era motivata dalla delicatezza della gravidanza gemellare, dai consigli del suo medico curante, ma soprattutto, dal clima di pressione psicologica che aveva iniziato a pesare nel luogo di lavoro.

«Il mio titolare mi diceva cose come: “Stanotte non ho dormito da quando mi hai detto che sei rimasta incinta”. Oppure, davanti a colleghi e persino davanti ai giardinieri che nulla avevano a che fare con le dinamiche interne all’azienda, faceva commenti come: ‘Ma hai vomitato? Sei sicura di essere incinta? Stai troppo bene’. Era umiliante e opprimente», racconta Anna.

I messaggi del datore di lavoro

«Quando ho comunicato la mia scelta di entrare in maternità anticipata, il mio datore di lavoro l’ha presa male. Ha iniziato a insinuare che, dopo il parto, avrei potuto lavorare da casa o compensare le ore in anticipo per essere sempre disponibile. Una situazione inaccettabile, soprattutto perché ero in maternità, un diritto sacrosanto», racconta Anna pensando ancora a quei momenti. E ovviamente, con il passare dei giorni, le cose non sono migliorate.

Il messaggio del datore di lavoro ad Anna

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Durante il periodo di maternità, colleghi e datore di lavoro «sono letteralmente spariti. Mai una telefonata per sapere come stavo. Si aspettavano che fossi io ad aggiornare loro».

Un mese prima del parto, Anna ha notato un importante ritardo sul pagamento dello stipendio. Inusuale. “Ciao, come stai? Ti scrivo per chiederti se c’è qualche problema perché siamo il 16 del mese e non mi è ancora entrato lo stipendio della maternità. Attendo tue, grazie mille” scrive Anna.

Questa invece, la risposta del titolare: “Calcoli li faccio anch’io.. prima devo guardare le cose più importanti e dopo se posso faccio il tuo stipendio.. non so con che faccia e dove trovi il coraggio di chiedermi come va solo perché ricevi lo stipendio con un paio di giorni di ritardo.. ti sei mai preoccupata di sapere come va in questi mesi visto come mi hai lasciato..”

Anna continua: «Ero all’ottavo mese di gravidanza, a casa da sola – e la maternità fino a prova contraria è un diritto, io non ho lasciato proprio nessuno – e il messaggio che mi hanno mandato mi ha fatto stare malissimo. In quel momento ho deciso che non potevo continuare. Non potevo permettere che mi rovinassero un periodo così speciale o rischiare la mia salute e quella dei miei bambini».

La scelta di licenziarsi

Sono state le pressioni ricevute, l’umiliazione di dover giustificare la volontà di essere diventata madre, ma soprattutto la voglia di non trascorrere una maternità con l’ansia del lavoro: sono state tutte queste cose che hanno condotto Anna a decidere di andarsene da quell’azienda.

«Mi sono rivolta ai sindacati e a un avvocato del lavoro. Mi hanno consigliato di sfruttare i miei diritti, come la maternità, ma mi hanno fatto capire che non avevo abbastanza prove per un’azione legale e che se dovevo denunciare avrei dovuto tornare a lavoro per raccogliere ulteriori prove. Non me la sono sentita di tornare al lavoro per raccogliere evidenze, come mi avevano suggerito loro, né durante la gravidanza né dopo il parto».

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Ora i due gemellini stanno bene, il parto si è concluso nel migliore dei modi ed Anna ha deciso di guardare al futuro con nuova determinazione: «Cercherò un altro lavoro, perché con due figli non si può stare senza stipendio. Ma questa vicenda mi ha profondamente delusa. Ne senti parlare sempre di questi casi, di queste ingiustizie, ma viverle sulla mia pelle è stato devastante. Ora che ho una figlia femmina, voglio essere un esempio per lei. Voglio insegnarle ad opporsi a queste ingiustizie. In questi mesi ho sempre avuto il pieno supporto del mio compagno, che è sempre stato accanto a me. Ora sono pronta a ripartire. Ora siamo pronti a ripartire tutti insieme, come famiglia».

Il mobbing: cosa significa

Il termine “mobbing” (dall’inglese “to mob”, verbo che significa “aggredire, attaccare”) è ormai da diverso tempo entrato nel linguaggio non solo giuridico, ma anche comune, per indicare un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.

Molestie sessuali sul luogo di lavoro

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In base ai soggetti coinvolti e alla loro posizione nella gerarchia dell’azienda o dell’ufficio, è possibile individuare le seguenti tipologie di mobbing:

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  • Mobbing verticale, quando la condotta persecutoria coinvolge soggetti collocati a diversi livelli della scala gerarchica, dovendosi poi ulteriormente distinguere tra:
  • Mobbing discendente, quando i comportamenti aggressivi e vessatori sono posti in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico della vittima (queste ipotesi vengono identificate anche con il termine “bossing”);
  • Mobbing ascendente, quando viceversa è un lavoratore di livello più basso ad attaccare un soggetto a lui sovraordinato;
  • Mobbing orizzontale, quando la condotta mobbizzante è posta in essere da uno o più colleghi posti allo stesso livello della persona che ne è bersaglio.

Essere vittime di mobbing

Le condotte del datore di lavoro che conducono al mobbing possono essere le più diverse: il lavoratore o la lavoratrice che ne è vittima potrebbe ritrovarsi ad essere isolato all’interno dell’ambiente lavorativo, venendo ad esempio relegato in una sede o in una postazione particolarmente scomoda o venendo escluso da riunioni, progetti, comunicazioni aziendali, corsi di aggiornamento e altre attività.

Istruzioni: Qui sotto, il Report Istat di 27 pagine sulla violenza in Italia sul luogo di lavoro. Usa la barra a destra per spostarti lungo il testo

Ancora, potrebbe divenire bersaglio di battute, pettegolezzi, insulti e comportamenti ostili di vario genere, così come ritrovarsi al centro di una vera e propria campagna diffamatoria portata avanti nei suoi riguardi; potrebbe vedersi improvvisamente sottrarre mansioni sino a quel momento ricoperte oppure essere assegnato a mansioni inferiori e dequalificanti. 

All’opposto, trovarsi a dover gestire da solo carichi di lavoro intollerabili, potrebbe trovarsi esposto a più intense ed assillanti forme di controllo da parte del datore di lavoro, ad esempio durante lo svolgimento delle proprie attività o in occasione di assenze per malattia. 

Mobbing sul luogo di lavoro: alcuni consigli per riconoscere alcune situazioni critiche

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Potrebbe vedersi privare di determinati benefit aziendali sino a quel momento goduti o vedersi rifiutare sistematicamente permessi, ferie ed altre richieste.

Nei casi più estremi, potrebbe essere licenziato senza alcuna motivazione; talvolta, potrebbe addirittura divenire bersaglio di violenze sul piano fisico o di aggressioni sessuali.

Uno sguardo ai dati: la situazione a Nord Est 

Nel Nord Est, i casi di mobbing e molestie sul lavoro risultano meno diffusi rispetto ad altre aree del Paese, ma rappresentano comunque un fenomeno significativo.

Molestie sessuali in Italia

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Secondo i dati 2022-2023, circa il 9,7% delle donne tra i 15 e i 70 anni ha subito molestie sul lavoro, con un’incidenza particolarmente alta tra le più giovani (21,2% tra i 15 e i 24 anni).

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Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige mostrano però un quadro complessivamente migliore rispetto a zone come il Nordovest d’Italia, dove il tasso raggiunge il 14,9%.

Le molestie colpiscono soprattutto donne in ruoli impiegatizi o operai e, in misura minore, uomini, con un’incidenza del 2,4%. Nonostante il problema, la sensibilizzazione e i corsi di formazione aziendali specifici sono ancora poco diffusi.



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