di Giovanni Cominelli
Dario Franceschini ha recentemente consigliato ai partiti di centro-sinistra di smetterla di andare a caccia di farfalle nel sedicente “campo largo”. Nelle Circoscrizioni ciascuno muova solitariamente alla tenzone contro il destra- centro: chi da destra, chi da sinistra, chi di fronte. Quanto ai Collegi uninominali, basterà fare accordi di desistenza e votare tutti uniti il candidato di un solo partito. La formula è quella di Bernhard von Moltke: “marciare divisi per colpire uniti”. Il quale, tuttavia, ci ha lasciato anche altri preziosi detti: “Nessun piano sopravvive al contatto con il nemico” e anche “La guerra è una questione di espedienti”.
Quello del “marciare divisi” è certamente un espediente: senza uno straccio di programma comune, avrà come esito quello di “essere sconfitti divisi”. In ogni caso, il Rosatellum non prevede desistenza. O si è uniti o si è si è divisi. Non esiste un “uniti a metà”.
L’intervento di Dario Franceschini ha riaperto, a neppure due anni e mezzo dall’inizio della XIX Legislatura, la discussione sulla legge elettorale. Dal destra-centro è rimbalzata un’ipotesi, non nuova, di modifica della legge elettorale: indicazione del Capo della coalizione sulla scheda; abolire i Collegi uninominali, perciò solo metodo proporzionale di lista; premio di maggioranza del 10/15%, se la coalizione sta tra il 40% e il 55%.
Elettori giocatori o spettatori?
Il punctum dolens che sta sotto la continua revisione del sistema elettorale è sempre lo stesso da quando è nata la Repubblica: il ruolo dei cittadini-elettori nel sistema politico. Nel gioco democratico devono giocare in campo o essere spettatori? Nella storia della Repubblica, il loro ruolo è stato quest’ultimo, solo i partiti hanno giocato. Che i cittadini-elettori dovessero giocare lo hanno sempre sostenuto in pochi. “Giocare” vuol dire che l’elettore scende nell’arena politica per scegliere chi lo rappresenta e chi lo governa. Erano i rari “presidenzialisti” a favore di questa posizione. Piero Calamandrei, intervenendo il 5 settembre 1946 nell’Assemblea costituente sull’Odg. Perassi, propose un sistema nel quale il Presidente fosse eletto direttamente dai cittadini- elettori. Gli rispose Emilio Lussu che bisognava evitare la guerra civile e che perciò il governo doveva avere legittimazione parlamentare.
Passata la Costituente, il presidenzialismo fu sempre considerato anticostituzionale, di destra eversiva. Lo sosteneva solo Almirante. E così mal gliene incolse a Randolfo Pacciardi, eroe delle Brigate internazionali di Spagna. Fu bandito.
Poi arrivò la Grande Riforma di Craxi-Amato. E poi Roberto Ruffilli, che negli anni ’80 usò la metafora del “il cittadino arbitro”: i partiti dovevano proporre programmi e schieramenti, il cittadino decideva, senza interposto partito. Fu assassinato dalle BR a causa del suo impegno riformatore. Fu così che il post-’89 portò al 4 agosto 1993, allorché fu approvato il Mattarellum, per il quale i Collegi uninominali – nei quali gli elettori votavano il proprio ben visibile candidato – coprivano il 75% degli eletti, mentre il 25% restava pur sempre nelle mani proporzionali dei partiti. La bipolarizzazione del sistema politico che ne seguì, la crisi finale del sistema dei partiti della Prima Repubblica, portò alla Bicamerale del 1997, in cui fecero capolino le opzioni del semi-presidenzialismo e del premierato.
Ma la primavera della rifondazione della Repubblica durò poco. Fu il centro-destra con il Porcellum a farci riprecipitare all’indietro, nell’autunno infinito della Repubblica. Dal quale non siamo più usciti, nonostante Commissioni bicamerali e referendum. Il Rosatellum è tutto ciò che resta oggi: i cittadini guardano dagli spalti, in numero sempre minore, sempre lo stesso spettacolo di partiti incapaci di riaprire la strada allo sviluppo del Paese.
Il coraggio di Giorgia Meloni
Nella Conferenza stampa del 3 novembre 2023 Giorgia Meloni ha ripreso in mano con coraggio il tema presidenziale, trasformando l’elezione diretta del Presidente in quella del Capo del Governo, assegnando al Presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Arrivata a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni si è accorta che “troppi governi/nessun governo”, che l’instabilità patologica genera troppo debito pubblico, pochi investimenti, nessuna politica industriale, sottosviluppo. Sì, la riforma presidenziale, oggi evoluta in un’ipotesi confusa di premierato, è “la madre di tutte le riforme”. Resterebbe da chiedersi perché la Meloni abbia votato “No” nel referendum renziano del 2016. Anche nel suo caso, ha prevalso la logica del tornaconto partitico immediato: far cadere il governo e andare a elezioni. Oggi si è resa conto che il mondo dei nemici e degli amici funziona in modo diverso: la durata dei governi è la pre-condizione di ogni azione e di ogni credibilità internazionale.
I governi deboli sono preda dei poteri forti interni, quelli dello Stato e del Mercato sul piano nazionale, quelli degli Stati e del Mercato globale, sul piano globale.
Pubblicato su www.santalessandro.org il 4 Febbraio 2025
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.
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