«Molti artisti hanno paura, sono ossessionati dai risultati, dal bisogno di essere capiti dalla gente», ci spiega Shablo seduto al trucco prima dello shooting fotografico di questa intervista. Lo dice sicuro, con la calma di chi si sta preparando a Sanremo con la testa dell’uomo (ma soprattutto dell’artista) adulto. Spesso, e un po’ anche per colpa sua che ha preferito dedicare gran parte della carriera nella musica a progetti più imprenditoriali (Roccia Music, BHMG, Moysa), rischiamo di dimenticarci che Shablo è prima di tutto un grande producer, uno dei migliori in Italia. Parlano per lui i nomi degli artisti con cui ha collaborato negli ultimi 30 anni: Club Dogo, Guè, Geolier, Sfera Ebbasta, Rkomi, Salmo, Fabri Fibra, Inoki e anche, perché no, Laura Pausini.
In un’industria dove il mercato viaggia cieco al massimo dei giri, Shablo, all’anagrafe argentina segnato sotto il nome di Pablo Miguel Lombroni Capalbo, è una figura particolare, unica per il panorama italiano. Lavorando davanti e dietro (ma anche a lato, sopra, sotto) l’industria, ha da tempo l’occhio privilegiato di chi, oltre alla musica, conosce la macchina e ha dimestichezza con i funzionamenti e le economie. È inoltre uno dei pochi nel mercato a non aver timore di ammettere le realtà e le problematiche più evidenti. «Non è detto che per tutti debba esserci spazio nel mercato o nella classifica», ammette candidamente, «uno può anche fare un altro lavoro e usare la musica per sfogarsi». Per poi chiosare: «Non penso sia il miglior momento degli ultimi cent’anni per ascoltare nuova musica». Troppa musica, troppi artisti, e la quantità va a discapito della qualità: «Ma non è mai la quantità a valere, è il tipo di musica che fai. A me piace fare musica rilevante, non mi piace fare musica se non l’ascolta nessuno».
Foto: Marco Giuliano per Rolling Stone Italia. Look: Issey Miyake. Scarpe: MM6. Occhiali: Marc Jacobs. Orologio: Omega
Dopo aver portato suoi vari artisti a Sanremo – lui che è, o è stato, talent scout, discografico, manager – quest’anno sarà tempo per il suo battesimo. Gli anni sono 44, ma la passione per il rap è ancora quella dei primi giorni, un metodo per rimanere giovane senza bisogno di make-up. Per celebrare un genere di cui in Italia è stato uno dei pionieri, Shablo ha deciso di affrontare l’Ariston unendo tre generazioni: quella della golden age di Tormento, quella a lui coetanea di Guè e quella delle seconde generazioni di Joshua. Il risultato è La mia parola, un brano che se ne frega delle regole di Sanremo e si propone come un pezzo di genere, un omaggio alla cultura hip hop e alla sua storia italiana. A sublimare il tutto la presenza di uno dei pionieri, Neffa, nella serata dei duetti per l’accoppiata Aspettando il sole e Amor de mi vida (quest’ultima dei Sottotono).
Che a Shablo piaccia essere multitasking ci è presto chiaro. Non solo si destreggia tra essere imprenditore musicale e artista, ma riesce anche a gestire intelligentemente un’intervista mentre il make-up artist usa uno strano aggeggio che spara elettricità sul suo viso, non troppo contento. Eppure anche lì resta calmo e pesa le parole con la maturità di chi sa che ogni intervista è un’occasione per dire qualcosa. Noi quel qualcosa ce lo siamo fatti raccontare volentieri.
Facciamo subito un check emozionale: come stai a poche settimane dall’esordio all’Ariston?
Ormai sono diversi anni che vado a Sanremo per portarci i miei artisti, quindi so cosa vuol dire quell’esperienza, ma ovviamente quando lo devi vivere in prima persona è differente. Per ora sono felice, avevo la voglia di mettermi in gioco visto che ho ripreso in mano il mio progetto solista.
Portare sé stessi di fronte al pubblico non è come andarci per seguire un tuo artista.
È da tanto che sono in questo business, sono allenato. Sarebbe stato diverso arrivarci quando avevo 20 anni. Ora sono rilassato proprio perché conosco l’ambiente.
Quando avevi 20 anni avresti mai immaginato di finire a Sanremo?
No, ma nemmeno due mesi fa. Non sono qui perché avevo la volontà di presentarmi a Sanremo. È successo in maniera un po’ differente; stavo lavorando al disco quando Jacopo Pesce ha sentito il brano e mi ha proposto di presentarlo a Carlo Conti. Non era quindi un brano pensato per il Festival. Sai, siamo in un momento di grande omologazione per quanto riguarda la musica e il suo mercato, ci sono tante cose che sono molto uguali e così mi ha intrigato l’idea di poter portare a Sanremo qualcosa di diverso, un po’ di rottura.
La mia parola è un brano poco sanremese. Sia nel suond, che è molto black, ma anche nella parte testuale; la strofa di Guè è molto rap, molto real.
Mi son chiesto se era giusto presentarmi con un pezzo che probabilmente non verrà compreso dalla maggioranza. Però, sai, la cosa bella è che poi parla la musica, e l’idea che fosse un incontro tra differenti generazioni di artisti che vengono dal mondo del rap mi piaceva: c’è Tormento che per tutti noi è stato un esempio, Guè con cui ho iniziato e Joshua che rappresenta il nuovo, un ragazzo di seconda generazione con una grande cultura black. È una cosa che in genere non viene portata a Sanremo, probabilmente perché fino a ora il pubblico non aveva gli strumenti per capirla. È qualcosa di autentico però, anche perché il mio disco sarà questa roba qui.
Se ti avessero chiesto di scrivere un pezzo per partecipare a Sanremo avresti portato questo brano?
No, mai, credo che ne avrei fatto uno più sanremese. Ma così ho capito che la novità è questa, partecipare a modo mio, con lo spirito che ci sarà nel mio prossimo disco, ovvero quello di scrivere canzoni senza pensarci troppo. Non volevo ragionare troppo sui pezzi, sulle hit, modificare cento volte la stessa traccia.
E ci penserai alla classifica?
Io ho sempre pensato, come artista, che uno non debba mai farsi ossessionare da certe ricette per arrivare in classifica e ottenere risultati. Per me l’idea di essere artista è fare quello che uno si sente nella massima libertà espressiva possibile. Poi le cose andranno come devono andare, non c’è molto controllo su questo; io voglio andare a divertirmi. Arrivare con questa leggerezza in una situazione così pesante – se ci pensi Sanremo è l’evento più rilevante nell’industria italiana, quello che ti può cambiare la carriera e portarti anche nelle classifiche Global di Spotify – crea un gusto agrodolce che mi aggrada. Quando le cose sono così pesanti, bisogna alleggerirle. E rispetto agli altri concorrenti che sono più in linea con il format, mi andava di riequilibrare un po’.
Qual è l’ispirazione per il suono di questo brano?
C’è tantissimo gospel, blues, soul, R&B, ma anche il rap anni ’90, quello della cosiddetta golden age, ovvero quel periodo dalla seconda metà degli anni ’90 ai 2000.
Foto: Marco Giuliano per Rolling Stone Italia. Look: Fear of God. Scarpe: MM6. Occhiali: Diesel. Orologio: Omega
Sei davvero molto calmo per uno che sta per esordire a Sanremo.
Ho sempre vissuto questo lavoro come un gioco, per me ci deve essere un aspetto ludico molto importante perché ci si prende un po’ troppo sul serio in questo lavoro. La mia è nata come una grande passione, considera che lo faccio da quando avevo 15 anni, adesso ne ho 44. Ho sempre fatto solo questo. Ho vissuto varie fasi dell’evoluzione del mercato ed essere riuscito a essere qua dopo la fatica che ho fatto nei ’90, guarda, la fa sembrare facile. I giovanissimi sono più in difficoltà perché magari a 20 anni non sono nessuno, a 21 son milionari, pieni di attenzioni e se non hai una struttura dietro può destabilizzare. Io ho il vantaggio di arrivarci a 44 anni, riesco a gestirla con un po’ più di calma.
L’esempio concreto è quello successo con Sangiovanni nel 2024…
La salute mentale è un tema più che mai attuale. E nella musica ci troviamo di fronte a una grande e costante pressione. E ci siamo sottoposti tutti, soprattutto chi ci mette la faccia. Però ecco, secondo me dobbiamo ritornare a quello che è lo spirito originale del fare musica, ovvero che è una passione, qualcosa di artistico, creativo, che può avere anche un effetto curativo perché mentre performi se esprimi qualcosa di emotivo che hai dentro, e lo tiri fuori, riesci a sciogliere la tensione. Dovremmo tornare a fare musica per puro piacere artistico e meno per i numeri, che sono sempre una conseguenza.
Mi viene da pensare che è anche importante fare musica assieme. Mi sembra che oggi i progetti siano troppo solisti mentre tu, anche per il tuo ruolo, hai sempre cercato la collettività. Penso alla PMC, la Porzione Massiccia Crew, la prima vera crew multiculturale italiana, ma anche a episodi come The Italian Job con DJ Shocca e Don Joe o l’album Thori & rocce con Don Joe.
Ma sai, noi produttori abbiamo sempre bisogno di altri artisti per esprimerci, è un po’ il limite che abbiamo. Per quanto adesso la figura del producer sia finalmente vista a tutti gli effetti al pari di quella di un artista – più all’estero che in Italia, ma ci stiamo arrivando – abbiamo sempre bisogno di qualcuno che metta la voce per noi.
Credo inoltre tu sia il primo produttore rap che gareggia a Sanremo.
Sì, credo di sì. Carlo Conti è stato molto coraggioso nel proporre questa candidatura, ci ha creduto molto.
Non pensi che il grande pubblico, quello generalista, si aspetterà che tu canti?
Certo, accadrà sicuramente, è un problema che mi sono posto. Ma il produttore è un po’ come il regista di un film, quello che ha la visione, che guida le altre persone coinvolte, che gestisce i vari elementi. È colui che dà la personalità al film. È una figura ancora poco conosciuta, soprattutto in Italia, qui siamo ancora un po’ indietro nel comprendere quale sia il lavoro del produttore. Spero però che la mia presenza possa servire ad aprire le porte per altri produttori, iniziano ad essercene tanti adesso.
Foto: Marco Giuliano per Rolling Stone Italia. Total look: Magliano. Occhiali: Carrera. Orologio: Omega
Se torniamo indietro a quando hai iniziato, i nomi dei producer che si conoscevano si potevano contare sulle dita di una mano. Come è cambiato il ruolo del produttore in questi trent’anni?
Prima il produttore era uno che ricercava in prima persona tutta una serie di ispirazioni lontane, rare. Era importante che la sua identità sonora fosse diversa da quella degli altri. Oggi su 100 produttori 90 usano lo stesso suono di rullante, prima sarebbe stato un sacrilegio. Non avrei mai potuto usare un rullante di Fritz Da Cat. Fare il producer era un lavoro sartoriale: dovevi campionarti il suono da qualche pezzo anni ’70, comprimertelo, lavorarci su per renderlo tuo. Questo bagaglio che mi porto dagli anni ’90 però mi ha permesso di costruire un’identità sonora originale, personale. Ora si è persa questa voglia di scoprire cosa c’era prima. A noi il rap degli anni ’90 ha spalancato alcune porte su ciò che c’era prima, perché andavamo a cercare l’origine dei samples dei nostri beat preferiti e scoprivamo dischi degli anni ’60 e ’70. Vorrei che questo stimolo alla conoscenza tornasse.
Fabri Fibra ha detto che il problema del rap italiano sono i produttori, nel senso che spesso sono poco originali o poco intelligenti nel capire che un beat per uno Sfera Ebbasta non può funzionare anche per un Fibra.
Per me è una co-responsabilità perché poi è l’artista che fa delle scelte che determinano la sua direzione. Parlo per esperienza personale: spesso quando proponi qualcosa di diverso viene rifiutato perché l’artista ha paura che non venga percepito dalla gente. Molti artisti hanno paura di osare perché sono ossessionati dal risultato. È la passione che ti spinge a fare qualcosa di diverso, se no rimani nel loop di dover far risultati e finisci a fare quello che fanno gli altri.
Aggiungerei anche che c’è troppa gente che fa musica oggi e che vuole farcela esclusivamente tramite la musica.
È vero, è tantissima. La musica è uno splendido metodo espressivo, ma non è detto che per tutti debba esserci spazio nel mercato o nella classifica. Uno può anche fare un altro lavoro e far musica per sfogarsi. Non deve esserci per forza un contratto discografico. Troppa musica, troppa gente che fa musica, il risultato è un ascolto distratto e veloce. Non penso sia il miglior momento degli ultimi cent’anni per ascoltare nuova musica. E credo che il mercato sia un po’ saturo. C’è bisogno di qualcosa di nuovo.
Mi viene facile allora chiederti di quando tu deciso di non limitarti a fare musica, ma di dedicarti anche all’attività imprenditoriale, una cosa che all’estero succede molto più spesso che da noi.
Sono una persona curiosa, che si annoia se fa sempre la stessa cosa. Sono sempre stato interessato ai meccanismi dietro la produzione di un disco, per esempio. Ho iniziato a fare il manager per un’esigenza economica perché ai tempi il produttore non aveva un mercato appagante, che mi permettesse di mantenermi. Quando ho iniziato ho capito che c’era un vuoto di mercato, nessuno degli addetti ai lavori aveva la conoscenza del mercato urban. Avevo molti amici e colleghi senza management, o booking, che non sapevano nemmeno cosa fossero le agenzie. Quindi mi ci sono messo e con il tempo ho imparato il lavoro, sbagliando qua e là ovviamente. Ma così ho creato le prime situazioni indipendenti che ci sono state in Italia come Roccia Music, Thaurus, BHMG. Ho creato situazioni che permettessero di dare un supporto agli artisti, perché poi il goal è quello di lasciare all’artista il tempo per la creatività e meno sbatti organizzativi.
E come ti districhi tra le identità di artista e imprenditore?
Negli ultimi anni purtroppo ho lasciato un po’ indietro la musica, ma ho sviluppato molto il lato imprenditoriale e manageriale, un processo culminato con l’apertura di Moysa a Milano, uno spazio creativo inaugurato un anno e mezzo fa con il mio socio Fabrizio Ferraguzzo. Ora però sentivo la voglia di tornare a fare qualcosa di creativo anche perché comunque è quello che poi ha differenziato sempre il mio modo di fare: faccio business in maniera più creativa e faccio creatività in maniera molto organizzata.
Perché pensi ci siano pochi artisti a dividersi tra questo doppio ruolo? In America è molto più diffuso, pensiamo a Jay-Z, Kanye West, Pharrell.
Ho lanciato molte realtà in passato con vari artisti, penso per esempio a Marracash con cui ho fatto Roccia Music, scoprendo molti talenti. Avevamo una visione. Il problema è che Marra è giustamente un artista e deve fare l’artista. Se si fosse perso a fare il business, forse non avrebbe fatto i dischi che ha fatto. Io ho fatto molto nel business, ma forse non ho fatto tanto nella musica, anche se i miei successi me li sono presi. Ma non è mai la quantità a valere, è il tipo di musica che fai. A me piace fare musica rilevante, non mi piace fare musica che ascolta nessuno.
Foto: Marco Giuliano per Rolling Stone Italia. Look: Tom Ford. Scarpe: Paciotti. Occhiali: Retrosuperfuture. Orologio: Omega
Visto che sei nella scena rap da oltre 30 anni: qual è la cosa più importante che si è persa?
L’ingenuità, la passione genuina di voler fare le cose solo per il gusto di farle. Quando ho iniziato non c’era internet, ero arrivato dall’Argentina e vivevo a Perugia. Anche solo potersi confrontare con qualcuno che amava la stessa cosa era incredibile, eravamo cinque o sei in tutta la città. Facevamo ore di treno per andare a un concerto dall’altra parte dell’Italia. Mi sentivo un archeologo che andava a scoprire qualcosa. Era una scena molto piccola, eravamo veramente in pochi, non era per la massa, la cultura dominante andava in un’altra direzione. Noi eravamo la controcultura, quelli che in un modo o nell’altro il mainstream non lo apprezzavano. E questo ti dava una carica unica perché così chi voleva fare musica era davvero un appassionato, non c’era spazio per altri.
E qualcosa di positivo che invece ha arricchito la scena?
I ragazzi di oggi hanno alle spalle oltre 30 anni di musica urban in Italia, che in un modo o nell’altro li ha stimolati a proporre anche cose diverse. Così hanno trasformato totalmente il mercato dopo anni di musica leggera italiana che non dava spazio alla musica alternativa. Il problema è che adesso si è andati nella direzione opposta. Manca l’equilibrio delle cose.
Domanda al te che fu talent scout: ora che il mercato è più saturo e omologato, come si capisce quando uno è davvero bravo? Ai tempi credo fosse più facile. Sentendo per esempio un mixtape come quelli vostri della PMC era facile capire chi era più forte e chi meno. Ma questo valeva un po’ per tutti in quel periodo.
Sì, ai tempi era palese chi fosse più bravo. Ma anche quelli che abbiamo scoperto con Roccia Music nel 2015 erano molto più bravi dei loro coetanei; erano qualcosa di nuovo, rappresentavano un cambiamento. La generazione dei vari Sfera Ebbasta – non c’era nessuno che cantava così con l’Auto-Tune prima di lui, ha portato quel tipo di melodia nel rap – Rkomi, Ernia ha portato una musica diversa in un momento in cui la discografia non era attenta a quel che stava succedendo. Oggi è molto difficile ritornare a quel periodo, perché appena il brano di un ragazzino fa un minimo di numeri il giorno dopo ha già tutte le case discografiche alle porte con i vari contratti, non gli lasciano nemmeno il tempo di emergere, crescere, sbagliare. Non c’è un naturale e spontaneo processo di crescita come in passato, ma subito l’ansia da prestazione di dover spaccare, raggiungere certi numeri.
Da quando hai iniziato avrai sentito parecchie volte frasi come «l’hip hop è morto», «il rap è morto», «la trap è morta». Eppure eccovi ancora tutti qua, e la trap ancora salda in classifica.
È una frase che si dice da sempre. Quando sono arrivato io sulla scena mi dicevano che ero peggio di quelli prima. E l’ho subita questa cosa, anche perché la generazione precedente alla mia è quella che purtroppo non ha saputo mantenere un legame con noi, mentre noi con quella successiva ci siamo riusciti. Penso a me, ai Dogo, a Marra; noi siamo riusciti a ispirare le generazioni dopo, a supportarle, a lavorarci insieme. Di quelli prima di noi mi vengono in mente quasi solo Bassi Maestro e Tormento, loro sono stati un ponte. Tornando alla domanda, l’hip hop non è morto, si è solo trasformato, non è più quella cosa di prima. A volte si fanno passi avanti, altre volte indietro, a volte è un’evoluzione, altre un’involuzione.
È un momento interessante per il rap: siamo finalmente di fronte alla prima generazione di adulti (parlo di gente di 40 e 50 anni, tuoi coetanei) che devono capire come si fa (e se esiste) un rap maturo.
È interessante vedere come un rapper di 50 anni oggi possa ancora essere rilevante. Penso a Guè, che va per i 45 ed è sempre lì a competere tranquillamente coi ragazzini. Questa cosa non è mai successa prima nel genere, sono dinamiche nuove. Se a vent’anni mi avessero detto che a 44 sarei stato ancora qui a far rap, non ci avrei creduto. Eppure eccomi, gasato come un ventenne.
E sul palco infatti ti porti uno come Tormento.
Di Tormento mi piace tantissimo l’evoluzione umana, perché non è facile arrivare dove è lui dopo tutto quello che ha passato. Ha ancora quella voglia, quella passione, sempre gasato, positivo. Poterlo portare su quel palco dopo l’esperienza non felicissima successa lì con i Sottotono credo sia una bella cosa.
Tra l’altro mi ricollego a quanto dicevamo prima: Tormento è stato uno dei primi a provare davvero a creare qualcosa di collettivo con Area Cronica, un’etichetta in cui spingeva talenti vista la sua posizione privilegiata da artista di successo.
È vero, certo, bravo. Lui è stato sicuramente uno dei primi imprenditori, ci ha provato, è stato molto coraggioso ai tempi. Aveva una visione, è stato molto bravo, ma i tempi non erano quelli giusti. A livello economico mi ha raccontato che è stata davvero dura.
Quando l’ho intervistato per un’altra cover story di Rolling mi ha detto che in quell’occasione aveva ragionato troppo da artista, provando ad applicare agli artisti indipendenti le economie dei Sottotono, che ai tempi erano un gruppo di grande successo.
Eh sì, non lo puoi fare. Quando fai questo lavoro devi distaccarti dalla parte artistica, o devi essere molto bravo a dividerla.
Oltre a Tormento, come dicevamo sul palco con te ci sarà un tuo coetaneo, Guè.
Di Guè mi piace il suo modo di vivere le cose così, come se se ne fregasse di tutto. In realtà lui è una persona attenta, però mi stimola questo suo atteggiamento per cui non fa nulla per piacere; credo il segreto sia accettarsi per quello che si è e non per forza cercare di piacere agli altri. E poi come me e Tormento è ancora un grandissimo amante dell’hip hop.
Mi pare che il legame di questa avventura sanremese sia l’amore, proprio da vecchia scuola, per questa roba del rap.
Sì, assolutamente, siamo molto allineati su questo, abbiamo un sacco di reference in comune. Abbiamo una chat dove ci gasiamo mandandoci dischi che non ascolta nessun altro oppure organizzandoci per andare a vedere qualche rapper old school che ci piace.
Foto: Marco Giuliano per Rolling Stone Italia. Look: Issey Miyake. Scarpe: MM6. Occhiali: Marc Jacobs. Orologio: Omega
Prima hai parlato di performance dell’artista, e parlando di performance non posso che chiederti: cosa fa un producer sul palco di Sanremo?
Ah, quello non posso dirtelo, ma lo vedrete. Ma faccio delle cose ovviamente. Sarà comunque una cosa difficile da far passare al pubblico perché il producer fa tutta una serie di cose prima che non si vedono sul palco se non nel risultato: ho prodotto il brano, naturalmente, l’ho scritto, ho scelto gli artisti adatti.
Parlando di gente che la storia del rap italiano l’ha fatta, nella serata dei duetti hai chiamato Neffa, una scelta di genere molto coerente, anche per i brani che porterete.
Neffa per me è stato un’ispirazione, così come per Guè. Sia da solista che come Sangue Misto ovviamente. Io da ragazzo mi sono trasferito da Perugia a Bologna proprio per quello che stavano facendo loro in città. A quei tempi la città del rap era Bologna.
Quindi sarete tutti insieme anche con Neffa, giusto?
Sì, sì, certo.
Chiudiamo il cerchio. Le due canzoni che avete scelto hanno fatto la storia del rap italiano anni ’90, Aspettando il sole di Neffa e Amor de mi vida dei Sottotono. Non ti chiedo nemmeno perché le hai scelte, perché se uno ha letto l’intervista fin qua e non ha capito cosa significa amare il rap, ora è troppo tardi.
L’idea più coerente, anche visto il brano in gara, era quella di fare un tributo alle origini del rap italiano, in particolare quello che mi ha ispirato a fare il mio lavoro di produttore. Sangue Misto e Sottotono, e di conseguenza Neffa e Tormento sono stati dei veri pionieri del genere e poterli avere sul palco per suonare insieme dei brani leggendari è motivo di grande orgoglio. Sono canzoni che oramai fanno parte di diritto del repertorio della storia della musica italiana.
***
Photographer: Marco Giuliano
Art direction: Alex Calcatelli per Leftloft
RS producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion editor: Francesca Piovano
Talent stylist: Rebecca Baglini
Fashion coordinator: Luca Paolantonio, Giulia Lacalamita, Alberto Sardella
Make-up & grooming: Vladyslav Rotaru per Making Beauty Management
Video production: Visionaria Film, Mauro Fabbri. Daniele Cantalupo
Video operator: Tommaso Ligorio
Video editing: Diego Marinello, Martina Longo, Davide Piunti
Studio manager: Ernestina Calciano, Team Visionaria Film
Studio assistant: Cecilia Anselmo
Photographer assistant: Lidia Gomez
F.E. Assistant: Elisa Brunello
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link