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Umberto Baldo
Oggi vi parlerò di Stato, di patto fiscale, di fiscal drag, termine quest’ultimo in voga anni fa, poi quasi desueto, ma ritornato prepotentemente attuale negli ultimi due/tre anni.
Lo so che quella delle tasse potrebbe sembrare una mia un’ossessione, ma per farvi capire che non è così parto da una domanda: relativamente al sistema fiscale cosa distingue uno stato autocratico da una democrazia?
La risposta è facile, e sta tutta nel cosiddetto “Contratto sociale”.
In uno Stato autoritario il “Capo” fa quello che vuole e decide per tutti; nelle democrazie il “patto fiscale” è fondamentale nel rapporto tra cittadini e Stato, perché rappresenta il cuore del contratto sociale moderno.
In sostanza, è l’accordo implicito per cui i cittadini accettano di pagare le tasse in cambio di servizi pubblici e beni collettivi garantiti dallo Stato, come sicurezza, istruzione, sanità, infrastrutture e previdenza sociale.
Inutile che vi ricordi che, se le studiate bene, tutte le rivoluzioni (da quella francese delle “brioches” , a quella americana dei “tea party”, a quella indiana del “sale”) nascono anche da problemi di tassazione e ingiustizie fiscali (in generale si parla del principio “no taxation without representation”).
In estrema sintesi un sistema fiscale equo e ben gestito rafforza la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Se lo Stato dimostra di usare le risorse pubbliche in modo trasparente ed efficiente, i cittadini saranno più inclini a rispettare gli obblighi fiscali. Al contrario, un sistema percepito come ingiusto alimenta l’evasione fiscale e la sfiducia nel Governo.
Attraverso il fisco, lo Stato può riequilibrare le disuguaglianze economiche, facendo in modo che chi ha di più contribuisca in proporzione maggiore, e chi ha meno riceva più supporto sotto forma di servizi e aiuti sociali. Questo principio, che si basa sulla progressività fiscale, è alla base dello Stato sociale.
Dai principi è poi necessario calarsi nella realtà del singolo Stato, per capire quanto il sistema fiscale sia allo stesso tempo giusto ed equo.
Ma a questo punto inevitabilmente dobbiamo tirare in ballo anche l’inflazione (l’aumento dei prezzi di beni e servizi) che è una tassa occulta per almeno due ragioni; erode il potere di acquisto, e diminuisce il reddito disponibile delle famiglie.
Tanto per parlare in termini concreti, in presenza di una fiammata inflazionistica, i salari stentano a seguire l’aumento dei prezzi, perché solo in parte sono indicizzati al costo della vita, e lo sono spesso con ritardo.
L’esperienza degli ultimi anni conferma questa tendenza: l’indice ISTAT delle retribuzioni contrattuali è aumentato del 5,4% dal 2019 al 2023; ma nello stesso periodo l’indice dei prezzi al consumo è cresciuto del 16,2%.
E’ vero che nel 2024 c’è stato un recupero salariale per via di alcuni rinnovi contrattuali, ma non per tutti i lavoratori, ed in ogni caso la perdita di potere d’acquisto c’è stata ed è stata significativa nonostante le “una tantum” messe in campo dal Governo
Ma oltre all’inflazione c’è un’altra tassa occulta che subdolamente ma coscientemente i Governi utilizzano per incrementare le entrate dello Stato ai danni dei cittadini-lavoratori; il cosiddetto “Fiscal drag” o se preferite “Drenaggio fiscale”.
Come vi dicevo è un termine che negli ultimi anni, quando l’inflazione è stata ferma a lungo, era entrato un po’ nel dimenticatoio.
Ma cos’è in parole povere?
Il fiscal drag, è un fenomeno economico che si verifica quando l’inflazione e l’aumento dei redditi fanno crescere il gettito fiscale senza che il Governo debba aumentare formalmente le tasse.
Per fare un esempio, immaginate di avere uno stipendio che aumenta perché c’è inflazione (o una pensione per il recupero inflattivo), mentre le aliquote fiscali non vengono aggiornate di conseguenza.
Ciò determina un aumento delle imposte perché il tuo reddito nominale aumenta, ma aumenta anche la percentuale di tasse che devi versare, perché magari sei finito in uno scaglione di imposta più alto.
Capite bene che il vostro potere d’acquisto non migliora: anche se guadagnate di più in termini numerici, l’inflazione mangia il valore reale di quei soldi. Quindi, di fatto, non siete più ricchi, e pagate più tasse. E lo Stato incassa di più senza aumentare le imposte: poiché più persone finiscono in scaglioni di reddito più elevati, più le entrate fiscali crescono automaticamente.
Per essere ancora più chiaro supponiamo che il tuo reddito sia di 30.000 euro, e paghi il 25% di tasse. A causa dell’inflazione, il tuo stipendio sale a 35.000 euro, ma ora rientri in uno scaglione la cui aliquota è il 30%.
Il risultato è che se anche il tuo stipendio è aumentato, il peso fiscale è cresciuto, e potresti ritrovarti con un guadagno reale inferiore.
Per capire meglio il punto, sapete che le aliquote IRPEF passano dal 23% per i redditi fino a 15.000 euro al 43% per i redditi superiori a 50.000 euro. Se un lavoratore percepiva 49.000 euro e si vede riconosciuto un aumento di 2.000 euro, sarà chiamato ad un prelievo del 43% sui 1.000 che eccedono la soglia di 50.000 invece del 35% che dovrebbe corrispondere per i redditi tra i 28.000 ed i 50.000. Questo fa sì che il suo aumento nominale di stipendio venga in parte eroso dalla maggiore imposizione fiscale, e di conseguenza il potere d’acquisto reale cresca molto meno, perché parte di quell’aumento finisce in tasse più alte.
Scusate la pedanteria, ma ha ritenuto opportuno fornirvi gli elementi di base per comprendere meglio il seguito dei miei ragionamenti.
E arriviamo così al Governo dei “Patrioti”, che si fa vanto di aver abbassato le tasse.
La verità è che ha tagliato il cuneo fiscale, ma le tasse sono scese solo per chi ne pagava poche o niente. Mentre il cosiddetto ceto medio, i “nababbi da 35.000 euro lordi” paga più Irpef di prima.
Non è vero quindi che le tasse sono state ridotte, tanto che l’Istat ha certificato che nel III° trimestre del 2024 la pressione fiscale è cresciuta dello 0,8% rispetto al 2023, arrivando al 40,5%.
Il Governo ribatte che la pressione è salita perché sono aumentati gli occupati. Ciò è senz’altro vero, ma all’aumento dell’occupazione non è corrisposto un aumento dei redditi, per cui in realtà sono aumentati i posti di lavoro a reddito basso che pagano in proporzione poche o perfino zero tasse (e quindi la pressione fiscale è aumentata per via del Fiscal drag).
A gridare vendetta di fronte a Dio c’è poi il fatto che il fiscal drag riguarda solo chi è sottoposto a sistemi fiscali progressivi, come quello degli scaglioni dell’Irpef appunto. Non riguarda invece chi gode della flat tax, la tassa piatta, poiché la quota di reddito da versare allo Stato non varia all’aumentare del reddito. Pesa quindi solo su lavoratori dipendenti e pensionati. Che poi sono gli stessi contribuenti che già assicurano oltre l’ottantacinque per cento di tutto l’Irpef versato.
Gli economisti Marco Leonardi, Luisa Loiacono, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi hanno calcolato che nel 2022 lo Stato ha incassato dal fiscal drag quattordici miliardi di euro, di cui 9 dai dipendenti e 3,9 miliardi dai pensionati. Per il 2023 e il 2024 non ci sono ancora i dati ufficiali delle dichiarazioni Irpef, ma secondo una stima degli economisti si è arrivati ad una cifra tra i 16,5 e i 17,9 miliardi per i soli lavoratori dipendenti. Maggiori entrate per lo Stato che si sono tradotte in una maggiore pressione fiscale.
Mi limito ad osservare, può essere malignamente, che la cifra suddetta somiglia molto alla somma spesa dal Governo nella manovra per finanziare il taglio del cuneo fiscale e la riduzione delle aliquote Irpef. Anche perché il concordato preventivo, propagandato come lo strumento per finanziare un ulteriore taglio dell’aliquota Irpef del ceto medio, si è rivelato un flop.
In altre parole i cittadini si sono pagati il taglio del cuneo fiscale con un aumento del fiscal drag.
Cominciate a smarrirvi in mezzo a tutti questi numeri?
Poco male, ragazzi, lo comprendo!
Quello che mi interessa avervi trasmesso, e spero di esserci riuscito, è che non restituendo il Fiscal drag (come fecero i Governi negli anni ‘80 e ’90), ci stanno raccontando le fiabe; nel senso che ci fanno credere di tagliare le tasse, mentre in realtà le stanno aumentando.
Guardate, io lo so bene che le risorse sono e saranno sempre più risicate, che la riduzione dell’imposizione sul ceto medio è come il “Santo Graal”, che tutti cercano e nessuno trova, ma almeno Lor Signori abbiamo il pudore e l’onestà di dirci le come stanno, perché prima o poi il “gioco delle tre carte” viene allo scoperto.
Chiudo osservando che, di solito, un cittadino scontento della gestione fiscale di un Governo, può decidere di votare per l’opposizione.
In Italia non è possibile, perché a gauche si baloccano ancora con categorie vetero marxiste ottocentesche quali “prelievi forzosi” e “patrimoniali”.
Ne deriva che, di fronte ad un sistema fiscale iniquo e perverso, di fronte ad un’evasione ormai diventata strutturale e di fatto incontrastata, non vale neppure la pena di incazzarsi; meglio adeguarsi al vecchio adagio: “se c’è rimedio perché ti arrabbi, e se non c’è rimedio perché ti arrabbi?”.
Umberto Baldo
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