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Tre giorni al Festival di Sanremo. E “lui” deve affermarsi e superare nel mare del concorso le corazzate dell’omologazione musicale imperante. Vorremmo un uomo solo al comando sabato notte. Provarci almeno. Invito i lettori a sostenerlo nel televoto per equilibrare il peso del valore artistico con altra mercanzia di altra qualità. Il suo nome è Dario Brunori in arte Brunori Sas. Calabrese doc ma cantautore italiano amato e stimato in ogni latitudine per linguaggio universale. Lui vorrebbe tornare a casa in trionfo come la Madonna del Pilerio patrona di Cosenza che si festeggia il prossimo 12 febbraio. Lui che ha già celebrato la Madonna di Pompei perché sa scherzare anche con i santi rispettando la religione che fa parte del nostro contemporaneo. Brunori che ha scelto di vivere a San Fili senza dover abitare a Milano. Pratica di vita della Calabria interna, sperimentazione esistenziale in nome dell’Italia minore dell’Osso, in stretta connessione con Franco Arminio e Vito Teti il quale ha espresso il suo endorsement per Dario perché Sanremo è anche lotta culturale oltre che divertimento. Le canzoni di Brunori sono allegre, romantiche e paradossali come la sua icona. Magnifico quarantenne nato nel 1977, ha ereditato per portento e mistero le istanze di quell’anno di movimento. La sua parola propone la calabresità moderna condita dall’antico della “scirubetta”. Dessert di poveri e ricchi legato alla neve estemporanea da condire con il caffè. Però lui nella sua canzone sanremese ci confida la gemella ricetta di chi “è cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele” perché l’identità del nostro cibo non può essere solo ‘ndujia con tutto il rispetto dei nostri fratelli di Spilinga. Il testo di Brunori è stato molto apprezzato dall’Accademia della Crusca a differenza degli altri concorrenti e in tempi di italiano ammazzato per sintassi ed espressività è una resistenza del nostro sapere.
La canzone “L’albero delle noci” di Brunori a Sanremo già ben considerata da venti giornalisti che l’hanno ascoltata in anteprima è una verghiana casa del nespolo postmoderna, è un giardino dei ciliegi che non sparirà dal mondo, perché in Calabria non vogliamo essere come le foglie appese agli alberi in autunno. Brunori scrive canzoni come De Gregori mentre quasi tutti gli altri concorrenti si affidano al team di autori che guardano al marketing invece dell’ispirazione. L’albero delle noci piantato a S.Fili e che contiene le canzoni di Dario curato per la figlia Fiammetta con gli insegnamenti di “mammarella Sas” che a Dario ha dato tanto come hanno sempre detto le nostre genitrici. Ha scritto a Dario sua mamma “Ca ‘a Madonna t’accumpagna” perché il libro “La morte della famiglia” fu utile nel Sessantotto ma oggi genitori e nipoti sono incontro di comunità e saperi giusti se non smarrisci la strada. Perché dovranno pur passare questi anni feroci, quelli che Brunori ha segnato cantando: “l’uomo nero ha spesso un debole per la casa, a casa nostra a casa loro, ed è un maniaco della famiglia, soprattutto quella cristiana, per cui ama il prossimo tuo, solo carne italiana”. Dario, ragioniere in bilico fra il dare e l’avere, Brunori scrive canzoni alla ricerca di un porto sicuro, quel porto che molti di noi cerchiamo e pur se non lo trovi conta la direzione. Brunori dalle parole rotonde anche quando suona in acustico, Dario che i musicisti li ha trovati anche a Radio Ciroma. Brunori che quando ha realizzato un programma Tv senza pensare all’audience ha raccontato la Terra di Piero e il lavoro di cura collettivo per chi ne ha bisogno. Un po’ Gaber, un po’ Tenco, sicuro un grande cantore che parla all’Italia di oggi con inflessione da Calabria del Nord, ma comunque calabrese unitario del nuovo secolo, sempre autentico come quando in un’intervista da cosentino si è preso la pizzicata sul Catanzaro
Brunori che viene da lontano quando ha ispirato il film indipendente dell’esordiente regista di Bernalda Giuseppe Marco Albano o ha partecipato al primo film dei cosentini Nucci e Rovito. Un Groucho Marx con molti fratelli acquisiti e con vaghi tratti di marxismo. Dario, il quale bestemmia all’insaputa della diretta in un passato Sanremo collaterale e che nelle cover omaggerà Paolo Benvegnu insieme a Dimartino e Riccardo Sinigallia suonando come in una sala prova con la band di sempre, e Mirko Onofrio che a Catanzaro invece ci è nato arrangia “L’anno che verrà” di Lucio Dalla perché l’anno che sta arrivando fra un anno passerà comunque. Però vorremmo che il 15 febbraio 2025 sia data perenne del nostro calendario. Come il 31 d’agosto quando per noi una storia nasce e l’estate muore ricordando la spiaggia di Guardia Piemontese, quella che ogni calabrese ha visto dai finestrini del treno con sentimento memoriale per gli immensi Pertini e Bearzot. Noi del volo Lamezia-Milano attaccati alla vita per la gente che ride per l’applauso al pilota che ancora si sente all’atterraggio.
Brunori differente da Mino Reitano, simbolo della nostra emigrazione del Novecento, autore raffinato che aveva cantato con i Beatles ad Amburgo e che con sacrificio ha rappresentato la “Calabria mia” di un tempo senza essere solo di Fiumara. Iva Zanicchi in coppia con lui rimase impressionata dal voto etnico a Canzonissima dei calabresi di ogni provincia e latitudine. Brunori diverso dalla pop Flavia Fortunato a Sanremo negli anni Ottanta solo per intrattenimento ma diverso anche dal dimenticato Fabio Trioli che al Festival gareggiò in coppia con i pacifisti Giganti. Forse Brunori si avvicina a Rino Gaetano per intonazione o a Cammariere per aurorale presenza scenica, cantautori calabresi che a Sanremo hanno pur fatto la Storia. E se parliamo di storia non possiamo dimenticare le sorelle Loredana e Mimì, artiste stellari, bagnaresi maledette da patriarcato calabro da mettere al bando e braccate dall’orrore del portar male. Bertè che voi siate sempre benedette per coraggio, altruismo e fantasia.
Dario Brunori è un cantautore. Non è un cantante calabrese ma un poeta italiano di Calabria. E come tale si esprime. E per questo cari lettori vi invito a sostenerlo al Festival di Sanremo. Anche una canzonetta aiuta a comprendere chi siamo e se questo albero di noci salirà sul podio o in classifica ci servirà a dire “questa volta abbiamo vinto anche noi”.
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Eugenio Guarascio, più padrone che patron del Cosenza, chiamato a rapporto dal sindaco Franz Caruso alla luce della catastrofica situazione di classifica e soprattutto societaria uscendo da Palazzo dei Bruzi è incespicato rischiando di cadere, molto scosso dalla presenza di alcuni tifosi che lo hanno apostrofato con frasi poco gentili. Guarascio si trova in questo ruolo per un incidente della Storia. Imprenditore dei rifiuti è stato costretto per motivi di business a indossare un abito non suo. Avulso del calcio non era mai stato al San Vito per una partita. La coincidenza lo riporta al paese di origine, Parenti, da dove era andato via da bambino per vivere a Lamezia Terme. Una provincia intera ora si chiede se venderà la squadra o se continua a sperare nella sua proverbiale fortuna. Temiamo che a coloro che verranno e ci chiederanno chi era Guarascio dovremmo rispondere con il manzoniano Carneade. Resta il dato che quando una squadra di calcio retrocede vuol dire che la sua economia territoriale di solito è molto scadente.
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Nuovo ordine di sfratto della statua di Giacomo Mancini da corso Mazzini. Dall’amministrazione comunale di Cosenza con metodo Nordio si motiva la decisione con esigenze di decoro urbano e regolamenti amministrativi dopo che il sindaco aveva partecipato all’inaugurazione e alle foto di rito. Considerato che oggi abbiamo trattato canzonette al sindaco Caruso ricordo i versi di Bennato: “Franz è il mio nome e vendo la libertà a chi vuole passare dall’altra parte della città”. Evitate tutti di farci vergognare di essere cosentini. La cara memoria di Giacomo Mancini non lo merita. (redazione@corrierecal.it)
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