Che l’Italia fosse un Paese di causidici, è cosa risaputa. Chi di questo si beava, la definiva culla del diritto (ora non s’azzarda più); chi invece ne prova un certo qual disgusto va piuttosto con la mente a quella gioiosa metafora del tipo nostrano che resterà in eterno scolpita ne La giara di Luigi Pirandello: uno che d’uomini e teatro della vita s’intendeva alquanto. È vero, l’Italia s’è sempre distinta per ‘genio’ giuridico: sin dalla rinascita del diritto romano nel XII secolo ad opera di venerati giuristi bolognesi, lo Stivale ha menato vanto del proprio sottilizzare, distinguere, confondere, interpretare le leggi ad usum del Principe, del Papa o dell’Imperatore, a seconda della bisogna e soprattutto del committente. Ha molto confidato nelle virtù della parola legale, poco potendo fondare su quelle d’uno Stato forte e consapevole dei propri alti compiti di organizzazione politica. E così la manipolazione d’una gran massa di parole ambigue ha sempre schivato, per l’intera sua storia moderna e poi anche contemporanea, il precipuo compito d’edificare la Nazione strutturata per affrontare i propri problemi sociali ed intesa al bene comune chiaramente identificato e posto a tema, quale compito della classe politica e della società civile. La stessa tanto esaltata ‘supplenza’ della Magistratura, non è che uno dei tanti lati del medesimo prisma: una centralità ingombrante dello spazio giuridico nelle questioni proprie della politica, che ovviamente snatura il giuridico, costringendolo ad inaudite contorsioni, che solo una sua accezione terribilmente formalistica può permettergli di realizzare. Ed il formalismo – volendola dir semplice – nel diritto è malattia mortale, che si manifesta in un fondamentale sintomo: le regole del diritto – che sono le sue forme, le sue cosiddette fattispecie – non sono più volte al loro scopo, quello di proteggere i beni della vita per i quali sono dettate, ma per produrre altre forme finalizzate unicamente a velare la realtà effettiva delle cose, determinando l’inefficienza tipica dell’elefantiasi giuridica. Un gioco di rimandi senza fine, perché si distorce la realtà, si perde di vista la ragione del diritto, s’annichiliscono gli stessi scopi per i quali esso esiste. Gli ultimi casi italiani, ne sono comprova luminosa. Il tutto principia dalla vicenda del generale libico Almarsi, liberato dal suo stato di detenzione, in base ad alcune, effettive irregolarità giuridiche. Apriti cielo. Erano esse superabili? Viziavano di nullità la decisione della Corte penale internazionale che aveva richiesto l’arresto del torturatore? Chissà. Da giurista, direi che una soluzione certa non esiste – come peraltro assai di frequente nel diritto. Il ministro della Giustizia, autorità competente, ha ritenuto che le irregolarità vi fossero e nella sua responsabilità ha lasciato che il detenuto fosse rimesso in libertà. Qui interviene un altro segmento giuridico. Il Procuratore della Repubblica di Roma – sulla scorta di una denuncia d’un ex parlamentare e sottosegretario – ha stabilito fosse atto dovuto l’iscrizione nel registro degli indagati del Presidente del consiglio dei ministri, del suddetto ministro della Giustizia, di quello dell’Interno, del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: insomma, si sospetta una non minuta associazione a delinquere ai vertici della squadra di governo. Apriti di nuovo, cielo. Si tratta di atto dovuto o di atto voluto? C’è della politica nella scelta del signor Procuratore o si tratta di distillato giure? O, peggio, c’è per caso del risentimento personale nell’alto magistrato, in contenzioso con il Governo per un affare di voli di Stato a lui ex abrupto negati? E via di lì, una proluvie di aguzze questioni e distinzioni, tutte là sul crinale sottile che distingue il diritto dalla politica, da noi peraltro piuttostosfrangiato. Ma non finisce lì: perché di lì, appunto, a qualche giorno, il Parlamento è sembrato trasformarsi in qualcosa a metà tra un’aula di Corte d’assise ed una delle Sezioni Unite della Cassazione penale in gran pompa adunate, impegnato com’è stato in affinate ricostruzioni in fatto ed in diritto, con il Governo a giustificare l’ortodossia giuridica del proprio agire e l’opposizione a sostenere invece che delle leggi s’era fatto invece cinico strame e che il Governo era poco di diverso da un volgare favoreggiatore. Accusa colta di balzo da un sudanese attento ai nostri dibattiti, che ha denunciato innanzi alla Corte penale internazionale, appunto per questo gli italici ministri. E non è mancato il contraccambio, perché il nostro ministro degli Esteri ha a sua volta auspicato un’indagine sulla Cpi, sospetta d’aver giocato sporco sui tempi, per recar danno non lieve all’Italia nei rapporti con la vicina ed instabile Libia. Quasi imperdonabilmente dimenticavo: il Procuratore Lo Voi, a sua volta, non se la passa meglio, finito com’è denunciato dai nostri Servizi per aver consentito la divulgazione di un documento top secret, insomma riservatissimo, che è stato possibile comodamente gustarsi sulle pagine di un quotidiano antigovernativo, apprendendosi così di ulteriori indagini sul capo di gabinetto di Giorgia Meloni. Ovviamente, non finirà qui, (il Csm ha già chiesto un’apertura di pratica a tutela del Lo Voi), perché quando la macchina della nostra non proprio efficientissima giustizia si mette in moto, talora dà prova d’essere efficientissima: e sullo sfondo c’è l’infinita querelle sulla riforma proprio della giustizia. È un popolo davvero sciagurato quello che rimette al diritto ed ai giudici la soluzione dei propri problemi politici: deformandoli così, rendendoli incomprensibili, impedendo che attraverso illuminante esperienza, attraverso di essi possa svilupparsi una civiltà, verrebbe da dire, delle buone maniere, ma se non di quelle, almeno fortificata da mature consapevolezze. Ed invece, solo confusione, avvelenamento delle fonti della socialità, perpetuazione delle irresoluzioni. È qualcosa che si sta vivendo da oltre trent’anni ed è ovvio che i nodi vengono al pettine con sempre minore possibilità d’esser sciolti nei modi appropriati. Chissà se qualcuno si pone il problema che, così proseguendo, non finiremo in tribunale – lì già ci siamo, in un grande tribunale – ma direttamente sul patibolo, quello inesorabile della Storia, che non fa sconti alle comunità inconcludenti.
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