La festa culturale di vittime e carnefici

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L’8 febbraio la slovena Nova Gorica è diventata una delle due capitali europee della cultura 2025. Le manifestazioni si svilupperanno assieme alla confinante italiana Gorizia nel tentativo di sviluppo transfrontaliero. Con raro spirito di rispetto e di sensibilità per le tragedie passate, non si è badato al quasi concomitante Giorno del ricordo, deciso dalla legge 92/2004 che commemora il 10 febbraio di ogni anno l’orrore delle vittime delle Foibe, dell’esilio forzato di mezzo milione di giuliano dalmati istriani, fiumani e dalmati. Da un lato, simbolicamente il Friuli, maxime Gorizia e Trieste, è un po’ la nostra Alsazia Lorena (non riconosciuta); il nostro, particolare, Olocausto, uno dei pezzi dello sconvolgimento del passato europeo, quando i pezzi del puzzle austroungarico saltarono in mille pezzi per ogni dove destabilizzando una stabilità europea secolare. D’altra parte, la sensibilità europea attuale va così, per una sua linea specifica virtuale, indifferente e noncurante del processo di coscienza in corso nelle diverse nazioni.

La coscienza italiana attorno a quella legge di più di un decennio fa non è affatto condivisa anzi è divisiva ancora oggi, Le sue commemorazioni danno sempre origine a scontri, polemiche e interpretazioni completamente dissimili. La norma è uno dei pochi risultati, se non l’unico, della lenta e crescente predominanza di destra nell’opinione pubblica nazionale. Uno dei pochi che confligge con il racconto rodariano sparso a piene mani in modo assillante per decenni a tutt’oggi sulla nascita della repubblica; di più confligge addirittura sul racconto generale degli americani. L’esaltazione per l’evento della capitale culturale europea si giuggiola attorno all’importanza dello studio e della conoscenza ma al momento dell’apertura dei libri di storia si devia il percorso degli studenti verso le mostre su Warhol e Basaglia. Ci si chiede perché gli italiani sembrano poco interessati alla piazza dove è tracciata tra le strade cittadine la divisione confinaria tra Gorizia e Nova Gorica. La risposta non viene data perché scabrosa. Si tratta infatti della storia di una sconfitta bruciante italiana; non ideologica, non nazionale ma etnica.

Il Friuli dopo l’evaporazione dello Stato nazionale dell’8 settembre venne annesso dai tedeschi in una riedizione amministrativa asburgica e fatto occupare dalle truppe cosacche ucraine del generale e scrittore dell’emigrazione Krassnov. Alle città friulane erano stati dati i nomi delle città daghestane. Alla ritirata ucraina strariparono le forze titine e gli slavi del sud cercarono di prendersi la regione e cancellare i risultati del nostro Quarto Risorgimento, nome nazionale della Grande Guerra combattuta qui per Trento e Trieste. La coda di quel conflitto era stata l’occupazione dannunziana di Fiume dove si erano confrontati l’antitalianismo razzista del presidente Usa Wilson e la rivendicazione dei patti segreti non rispettati a Parigi dove Roma turlupinata era rimasta a mani vuote, anzi nette. L’ansia occupante degli jugoslavi era la revanche per Fiume, nelle vesti del protettorato dello Stato Indipendente di Croazia, creato dai tedeschi fra ’41 e ’43 a vantaggio del re sabaudo Tomislao II e dell’irredentista croato Pavelic cui era stata concessa la Dalmazia già italiana. Dalle convulsioni delle guerre jugoslave sarebbe uscita l’attuale Croazia, erede diretta di quello Stato Indipendente, unico caso continentale di sopravvivenza dei resti della Fortezza Europa.

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Gli italiani sapevano e sanno che dovevano accettare di buon viso ogni cosa perché brutalmente sconfitti sorridendo al vincitore ripetendosi addirittura secondo retorica di essere vincitori. Sono attaccati a Milano, frutto della seconda guerra d’indipendenza; già meno a Venezia, frutto della terza; pochissimo ai torsoli della quarta. In omaggio al comune comunismo Togliatti avrebbe dato volentieri a Tito Gorizia o Trieste che venne salvata dal democristo Andreotti nel ’74. Vennero in soccorso gli americani che dopo il secondo conflitto tenevano alla frontiera occidentale antislava che passava dal Friuli, proprio loro che dopo il primo conflitto erano stati tanto filoserbi ed antitaliani. L’opinione pubblica e la burocrazia italiane permeate, al Nord come al Sud, di spirito meridionale diretto ed indiretto, abituate nella realtà e nella fantasia alla centralità dell’antimafia, sentono estraneo il sentiment mitteleuropeo. Vista la malaparata, fra le tante subite, sul fronte jugoslavo alla fine dell’ultimo conflitto in genere preferiscono scordare quanto la missione balcanica civilizzatrice balbiana fosse uno degli ingredienti portanti del mito risorgimentale. E sono state voltate le spalle anche a luoghi del mito del quarto Risorgimento come la parte montana dell’Isonzo ed il Carso e come l’ex Libero triestino, la cosiddetta Zona B, vale adire la regione di Capodistria nel golfo di Trieste. Genti e terre tutte divenute tra ’47 e ‘54di dominio sloveno, giunto così allo sbocco sul mare.

Queste cose non vanno rimestate. I confini sono intoccabili, determinati da mano divina e da sentenze storiche. Le perdite italiane passano sotto il giusto giudicato delle colpe fasciste e per decenni gli italiani delle terre giuliane e dintorni sono stati insultati come esiliati perché fascisti. Bisogna ammettere che almeno un terzo del paese lo pensa tutt’oggi. Sotto la condanna di fascismo e protocolonialismo sono finite anche la presenza, la memoria e l’influenza secolari imperiali veneziane nell’Adriatico. Intanto però la Slovenia è risultata dal ’45 in poi sempre vincitrice con la furbizia di passare sempre dalla parte vincente. Vincitrice da comunista, quando occupò e infoibò. Vincitrice nel crollo comunista, quando grazie a Germania e Austria, si sfilò in anticipo quasi agevolandolo, dal disastro jugoslavo che inutilmente l’Italia socialista, già inquisita, cercava di evitare. Gli sloveni, slavi tedeschizzati, si sono emendati dallo spirito barbarico balcanico grazie all’influenza tedesca ed italiana. Da ultimo si sono indirizzati verso Vienna e talvolta, dopo averci invidiato, ci guardano come terroni. Anche la Croazia postnazista, grazie alla passion americana, all’epoca antiserba e filomusulmana, si ritrovò tra i vincitori.

Ovviamente nelle strade già jugoslave, come la centrale Gorzo di Fiume, locali e turisti si ripeteranno quanto sia evidente dovunque la mano della civiltà veneziana. Dovunque nel nord est balcanico, il potere era ottomano o tedesco, la campagna slava e la cultura italiana. Sul posto, nella capitale culturale Nova Gorica 2025, lontano dai media e dai discorsi ufficiali, alle spalle della presidentessa e del presidente a braccetto, si ripeterà quanto fosse grande la cultura italiana e quanto ne abbiamo appreso gli slavi; oppure, per evitare brutti pensieri, si parlerà d’altro. Ed i giovani sloveni impareranno con un sorriso ironico che la cultura è bella e importante ma che è la forza propria o di grandi alleati a determinare le cose, la vita, il destino proprio ed altrui. E le vittime, se restano dalla parte perdente, restano tali senza risarcimento come hanno ribadito le scritte vandaliche alla foiba di Basovizza. Molti italiani, pur di non essere perdenti, si immaginano partecipi, di chi versò sangue solo perché era italiano.



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