Andri Snær Magnason, segnali da una terra plasmata dalle storie

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«La vita senza rischi è rischiosissima», lo sa bene lo scrittore islandese, poeta, drammaturgo, documentarista e attivista ambientale, nonché ex candidato alle elezioni presidenziali islandesi del 2016, Andri Snær Magnason, che in Italia è già noto per pluripremiate opere letterarie sia per adulti che per bambini (Il tempo e l’acqua, traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, 2020; Bonus, traduzione di Walter Rosselli, Nottetempo, 2017). Lo sa bene perché è islandese, e come tale sa che «i letti asciutti dei fiumi sono presagio di una forza che potrebbe irrompere da un istante all’altro». Una forza che nella nuova raccolta di racconti appena uscita – di cui si parlerà sabato 15 febbraio al Teatro Parenti a Milano per la nuova edizione del festival «I Boreali» (La pietra del gigante, traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, pp. 160, euro 17) – è di natura decisamente emotiva. Emotiva perché negli otto racconti contenuti, protagonisti sono il tempo che passa e le trasformazioni dei sentimenti, delle ragioni individuali. Così anche un amore può sciogliersi come un ghiacciaio, provocando catastrofi, consci però che il dio della creazione e quello della distruzione – spiega Magnason – devono per forza collaborare, come in una compiuta «città perfetta» costruita con i Lego, dove se non distruggi ciò che hai costruito non puoi più giocare.

Come ci si accorge nella routine della vita quotidiana di quando le cose stanno in realtà cambiando? Nei suoi racconti non ci sono mai fratture violente, eppure i protagonisti a un certo punto si scoprono diversi da sé stessi.
Le storie sono come dei campioni che gli scienziati ottengono quando perforano i ghiacciai per estrarre parte del nucleo, piccoli campioni di un particolare momento storico: il materiale è poco, eppure dà tutte le informazioni necessarie. Un «campione» di questa raccolta cattura esperienze che molti della mia generazione hanno vissuto. Trovare un partner quando si è molto giovani, addirittura nell’adolescenza, avere figli molto presto, comprare una casa, scegliere una carriera, osservare il tempo che passa mentre le responsabilità si accumulano diventando sempre più impegnative, fa sì che arrivi un momento in cui ti rendi conto di essere oppresso. E non è tanto la vita che «scivola via» a preoccuparti, quanto la prefigurazione di un futuro sempre più opprimente. «Farò davvero tutto questo per i prossimi cinquant’anni? Sarò in grado di amare sempre la stessa persona?». Il dubbio può insinuarsi in modo lieve, ma poi cresce, esplodendo infine come una diga.

Lo scrittore Andri Snær Magnason, foto di Gassi Olafsson

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Nel corso del tempo il rapporto con la natura è mutato in Islanda: ma ora che i ghiacciai arretrano, dobbiamo modificarlo in fretta

Il ritratto che fa della sua generazione è impietoso. Lei scrive che il mondo è crollato a causa della parola, non per una bomba o un virus. Quando e perché è andata perduta la forza vitale della parola e abbiamo cominciato a sentirci più «attuali» usando slogan come «pensare fuori dagli schemi», «i soldi nascono dai soldi», ecc.? Il campionario messo in bocca ai suoi protagonisti è notevole. Che ruolo ha in questo caso lo scrittore?
Un ruolo fondamentale: deve osservare e comprendere il potere delle parole, capire cosa ci dicono e smascherare la retorica. La storia in cui esaspero questi slogan deriva dall’aver osservato i cambiamenti avvenuti nel mio paese intorno al 2007, quando molti valori si sono rovesciati e il gergo dell’economia, del business, del successo e dell’individualismo è diventato dominante. Noi islandesi siamo sempre stati aperti alle influenze, però su molti aspetti siamo sempre stati radicati nelle origini, forse proprio grazie alla generazione dei miei nonni, che era nata in un mondo ancora antico. Quando ero bambino, l’Islanda era molto omogenea, non c’era una classe superiore così distaccata dal resto: il netturbino o chi lavava i pavimenti potevano guadagnare anche più di un professore universitario. Negli anni ’90, però, con la privatizzazione del sistema bancario e delle quote di pesca, le cose sono cambiate e così all’improvviso abbiamo cominciato a vedere persone possedere decine di milioni di dollari. Le vecchie aziende non avevano mai visto così tanto denaro. È nata una nuova élite, con un nuovo linguaggio e nuove «giustificazioni» per la propria esistenza. Abbiamo anche iniziato a espanderci nel mondo: se prima per noi era «esotico» anche solo visitare alcune città europee, improvvisamente gli islandesi «possedevano» edifici iconici come lo Hamleys Toy Store a Londra o il Magasin du Nord a Copenaghen (acquisiti nel 2003 e nel 2004 dal Baugur Group e mantenuti fino al 2009, quando la società di investimenti fece bancarotta, ndr). Come è noto, tutto questo è crollato nel 2008, e così la retorica è nuovamente cambiata.

Uno degli «eroi» di questa scalata finanziaria nei suoi racconti viene paragonato alla figura maligna di Skarpheðinn, personaggio leggendario della «Saga di Njáll». Quale ruolo ha nella sua memoria di scrittore la presenza delle saghe della tradizione islandese?
La Saga di Njáll è una storia che può davvero insegnare come si raccontano le storie. Per un periodo ho addirittura cercato di ribellarmi al peso di questa influenza: ho provato a rileggere la Saga di Njáll per trovarvi dei difetti… ma ho provato più brividi di quando l’avevo letta per la prima volta. Queste saghe invecchiano bene anche nell’era del femminismo e del multiculturalismo, resistono ancora e superano anche il «Bechdel Test». L’Islanda è molto ricca dal punto di vista letterario, da bambino sono stato influenzato dal folklore… storie di elfi, fantasmi e troll. Tutte le storie sono raccolte in una sorta di antologia «scientifica» (a cura di Jón Árnason, 1862-64, ndr) dai capitoli dai titoli come «Gli elfi cercano l’amore umano», «Gli elfi vendicano il tradimento…», oppure «I troll dei fiordi orientali mangiano i sacerdoti…». Sono storie molto realistiche, proprio per questo io non mi sono mai avvicinato a Tolkien, perché sapevo che il suo era un romanzo di fantasia, mentre le storie islandesi sono «reali». In Islanda si può vedere chiaramente come la letteratura e le storie plasmino e diano significato a ciò che sta intorno. Quasi ogni cosa ha un significato parallelo in senso letterario.

Nel 1824 Leopardi intitolò una delle sue operette morali «Dialogo della natura e di un Islandese»: la Natura rivela di essere indifferente all’uomo e perciò di non avvedersi di essergli sfavorevole. Il poeta scelse oculatamente un islandese. Nei suoi racconti però non si percepisce una frattura, l’uomo sembra parte della stessa natura e uno dei suoi protagonisti si identifica addirittura con la montagna.
Il sentire di Leopardi ha effettivamente un riscontro nella sua epoca: erano trascorsi pochi anni dall’eruzione dello Skaftáreldar (1783, ndr), che causò la morte di quasi il 20% della popolazione e il 75% del bestiame. Mentre la maggior parte delle nazioni intorno a noi cresceva costantemente, in Islanda nel XIX secolo eravamo meno di quanti fossimo nell’anno Mille. Queste statistiche sono piuttosto desolanti in termini di fame, malattie e mortalità infantile, e quindi ciò che si scriveva in Italia non era così distante dalla realtà. Quindi, la natura era indifferente agli islandesi? Decisamente sì! Forse per questo si può dire che in Islanda abbiamo un rapporto molto sfaccettato con la natura. Alla fine del XIX secolo, gli intellettuali parlavano di come le macchine potessero diventare la nostra rivincita contro tutte le difficoltà subite: per domare le cascate, sfidare le onde e il vento. A volte c’è stato uno squilibrio nel nostro sviluppo e io ho lottato per proteggere alcune aree naturali.
Nel XX secolo siamo riusciti a trasformare quasi tutti gli svantaggi della nostra natura in vantaggi. I vulcani ci hanno danneggiato per secoli, ma oggi l’energia geotermica è la nostra principale fonte di energia, con benefici di gran lunga superiori ai danni che i vulcani possono ancora causare. I nostri mari pericolosi si sono rivelati ricchi di pesce. E poi è arrivato il turismo, con gente che viene proprio per vedere tutto questo. Il nostro rapporto con la natura quindi si è evoluto con la modernità, ora è fondato sulla bellezza e sul tempo libero, piuttosto che sulla lotta per la vita o la morte. È stato solo negli anni ’30 che abbiamo iniziato ad amare e apprezzare la bellezza dei campi di lava: per secoli, quei campi sono stati considerati pericolosi, sterili, delle «ferite che dovevamo sanare». Ma ora stiamo assistendo a un altro cambiamento. L’umanità è diventata così potente che anche enormi forze naturali come i ghiacciai stanno arretrando. Questo richiede un rinnovamento del nostro modo di comprendere il rapporto tra noi e il pianeta. In un primo momento potrebbe sembrare che abbiamo invertito il pensiero di Leopardi, e che ora sia la Natura a essere vittima della nostra indifferenza. Ma se tiriamo troppo il filo, potrebbe scrollarci via.



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