Quando in carcere la solidarietà era pane quotidiano

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«A parole è facile dirsi disponibili a rischiare la vita, ma nei fatti, quando è l’ora, le opinioni cambiano sull’onda della paura che attanaglia le viscere. Infatti, quando giunse il momento di passare alla fase operativa, rimasi solo perché gli altri due cominciarono ad avere paura».

È uno dei tanti progetti di fuga di Severino Turrino, che prima ancora di entrare in carcere, uno delle decine di carceri in cui ha trascorso gran parte dei suoi settantasette anni di vita, già cercava di capire come uscirne. E non c’era verso: ci provava sempre, non importa quanto fosse sorvegliato, se le condizioni di vita fossero pessime o quasi accettabili, gli altri detenuti disposti a collaborare o indifferenti. La prima, davvero eclatante, stupefacente particolarità di Turrino, è stata la voglia di libertà e la determinazione a conquistarsela, questa libertà, anche contro ogni ragionevolezza, quando le probabilità di scappare sembravano pari a zero.

Oggi Turrino racconta le sue vicende nel libro L’evasione infinita, per la collana curata da Sergio Bianchi “Settanta Milieu”, delle edizioni Milieu. Nel presentare la collana, Paolo Virno spiega che non si tratta di un’operazione nostalgica, che non saranno pubblicati solo testi scritti o che riguardino quel decennio ma, essendo «gli anni Settanta il nostro futuro alle spalle», anche testi che segnalino una sorta di continuità con le aspirazioni e, perché no, le analisi politico-sociali che all’epoca guidarono coloro che volevano cambiare il sistema. 

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Nato in una famiglia poverissima, con il padre che da “contadino-servo” di un latifondista era passato, una volta padre di famiglia, a un contratto di mezzadria (che, in dipendenza dal raccolto, faceva fare la fame a intermittenza a lui, moglie e figli), Severino non gioca, non riposa, dorme poco: deve lavorare e poi andare a scuola (le uniche ore rilassanti, quelle sui banchi scolastici). Cerca di uscire da quella prima prigione scappando dalla finestra per raggiungere gli amici dopo che i suoi si sono addormentati, e poi, appena più grande, per tentare altre strade, legali: taglialegna itinerante, manovale, facchino e autista in un consorzio agrario, camionista. Come camionista ha l’occasione dei primi furti. Ruba un po’ di merce, quindi, scoperto, si dedica al contrabbando di sigarette. Incappa nella Tributaria ed è un punto di non ritorno, anche se l’impatto con la galera non gli risulta traumatico, ma addirittura incuriosente. «Conobbi cos’era l’umanità e la solidarietà di persone che  vivevano in spazi ridotti, con cibo molto scarso e pessimo … La miseria c’era anche lì, però, insieme, c’era una sorta di grande ricchezza umana. Paradossalmente, un ambiente che basava la propria vita sull’illegalità era molto più ricco di rapporti umani solidali che quello da cui provenivo».

Una volta fuori, Turrino si aggrega a ladri conosciuti in carcere e da contrabbandiere diventa ladro, da ladro rapinatore a mano armata. Sa di andare incontro a una sofferenza “estrema e distruttiva”, lo riconosce, non gli importa: il gusto per una vita avventurosa, l’esperienza di una vita diversa e nuova lo spingono inesorabilmente a continuare, ed è un crescendo.

I racconti delle fughe sono sbalorditivi. Piani elaborati nei minimi dettagli, esecuzioni più che perfette perché tengono conto degli imprevisti e quindi implicano capacità di improvvisazione e sangue freddo. Al di là di qualunque giudizio di merito, sembra di vedere un film. Ma non è soltanto questo l’aspetto interessante del libro. Si resta sbalorditi anche, e in modo traumatico se delle carceri si sa poco, della costante e inesorabile violenza che vi regna. Le scariche di botte, le minacce, le intimidazioni, le punizioni che sono vere e proprie torture. Immagini disgustose: una squadra di picchiatori per costringere il prigioniero a mangiare mentre è in sciopero della fame, col risultato che gli fanno saltare e ingoiare due denti; un maresciallo che accoglie il nuovo arrivato dicendogli «Stavolta ti faccio morire qui»; sigarette spente sul collo; il manicomio criminale con caviglie e mani serrate da cinghie di cuoio che non vengono tolte nemmeno al momento della doccia: dieci giorni interi in balia  di un prigioniero che ha dato fuoco a tutta la sua famiglia e si accanisce con sadismo su chi gli è affidato.

Un giorno, il primo contatto con prigionieri appartenenti ai Nuclei armati proletari e alle Brigate rosse, che «avevano intenzioni troppo grandi e discutevano di un’evasione di massa», ma con cui Turrino inizia a parlare, discutere. Presto il racconto dei movimenti eversivi si sovrappone a quello della ribellione individuale, l’Io diventa Noi: è il ’77, e a un colpo di Stato comincia a credere anche Turrino. «Il clima rivoluzionario che si respirava nel paese coinvolgeva chiunque, quindi influenzava e modificava anche la mentalità dei prigionieri … Si operò una scrematura dei soggetti più pericolosi che dal circuito normale vennero deportati in quello degli speciali. Tale operazione aveva come fine un duplice scopo: pacificare le carceri, ristabilire la loro funzione e contemporaneamente usare il circuito speciale come deterrente nei confronti della massa dei prigionieri». A Novara, la direzione del carcere viene soppiantata da un apparato militare che agisce in sintonia con i carabinieri, e sono massacri. Percossi pesantemente anche prigionieri anziani, vengono manganellati mentre sono costretti a camminare sulle ginocchia; molti ingoiano intere posate pur di passare qualche giorno in ospedale.

Per isolare e rendere inoffensivi i detenuti politici, lo Stato adotterà diverse strategie. Molto di ciò che racconta Turrino non è mai trapelato, ed è utile anche ai fini di ricostruire la storia di quegli anni, che non è soltanto fatta di operazioni “visibili” di militanti armati, ma delle ripercussioni di queste operazioni all’interno delle carceri, tanto che tra le richieste di chi era “fuori” c’era puntualmente quella di chiudere l’Asinara e di modificare radicalmente il regime carcerario. 

Turrini verrà, insieme ad Abatangelo e Ognibene, indicato da un collaboratore di polizia come autore di due omicidi, di cui tuttora si può leggere in qualunque cronaca dell’epoca o anche più recente, ma lui ha sempre negato ogni coinvolgimento. «A prescindere dalle conseguenze penali che non ho mai calcolato, non mi sono mai voluto assumere la responsabilità di quell’omicidio perché l’ho sempre considerato una vergogna morale».

Piano piano, la situazione cambia. I dirigenti di Prima linea dichiarano pubblicamente lo scioglimento dell’organizzazione e a un loro maxiprocesso si dissociamo dalla lotta armata come metodo di lotta politica, la legge sui pentiti porta molti dissociarsi e, tra il 1981, anno in cui viene liberato Dozier – e che segna, secondo Turrino, la sconfitta militare della lotta armata –, e il 1981, sono rotture, disperazioni, tradimenti, disimpegno, ritorno al privato… fino al 1985, quando si definiscono nettamente le posizioni. 

Ancora tante sono le vicende di Turrino, che non si è mai pentito e anzi, rilancia: «Ho passato e subìto di tutto per indicare una strada utile a costruire qualcosa a misura d’uomo, ma la moltitudine ha preferito accettare un consorzio sociale dove esiste chi ha troppo e chi ha niente, una collettività dove c’è chi sbrana e chi viene sbranato».

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Quasi ovvie due considerazioni. La prima, è che il carcere non ha mai “rieducato” nessuno, al contrario, incrudelisce anche chi crudele non è. La seconda, è stata perfettamente espressa da Albert Camus: «Questa società scrive le parole libertà e uguaglianza sulle prigioni come sui muri della finanza. Tuttavia, non si prostituiscono impunemente le parole». 



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