Wulz, corredi e album di famiglia al confine di un lungo secolo

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È il 1851 quando la domestica Klara Wulz arriva a Trieste. Non è la prima e nemmeno l’ultima, da sola con il suo bambino, a cercare fortuna nella città che dicono ricca e piena di occasioni. Così giunge a Trieste quel figlio «illegittimo» che diventerà il capostipite di una dinastia di fotografi di assoluto successo. Sono proprio le albumine di Giuseppe Wulz ad aprire la mostra Fotografia Wulz. Trieste, la famiglia, l’atelier visitabile al Magazzino delle Idee fino al 27 aprile (l’iniziativa è all’interno di «Go!2025&friends» Erpac Fvg, ndr).
La piazza con il Municipio, il parco e il castello sul mare fatto costruire da Massimiliano d’Asburgo, la gente di quell’emporio affollato dove ricchi borghesi si mescolano ad artigiani, bottegai, zingari.

LA FAMA DI GIUSEPPE cresce come la moda di farsi ritrarre, i musei ricorrono a lui per arricchire i propri archivi, alle conferenze si cominciano a proiettare diapositive. Nel 1891, per ampliare l’atelier, viene alzato di un piano palazzo Hierschel nel Corso principale di Trieste: un salone tutto a vetrate e tende scorrevoli e una lunga balconata per avere sempre la luce migliore in una posizione privilegiata su quanto succede in città.
Al fianco di Giuseppe Wulz lavora suo figlio Carlo. Di lui si conosce la giovinezza movimentata, le relazioni della polizia e qualche giorno in gattabuia per il suo prendere parte a «segreti conventicoli anarchici» e a qualche rissa. È tra le fila anarchiche anche in quel drammatico febbraio del 1902 quando, dietro lo sciopero dei fuochisti del Lloyd austriaco, si muovono tutti gli operai di Trieste in uno sciopero generale e in una manifestazione che viene repressa nel sangue.
È Carlo a gestire l’atelier alla morte del padre nel 1914 e le differenze si vedono presto. Impara dai fotografi viennesi nuove tecniche, utilizza la gomma bicromata per l’effetto flou, dota lo studio di fondali mobili da utilizzare all’aperto. Suoi parecchi nudi di donna, sue le fotografie prese dal balcone di palazzo Hierschel durante gli imponenti funerali dell’erede al trono Francesco Ferdinando assassinato a Sarajevo. E fotografa, tanto, le figlie Wanda e Marion, splendide modelle.

SONO PROPRIO Wanda e Marion Wulz a prendere le redini dell’atelier alla morte del padre nel 1928 e le due sorelle diventano subito testimoni e protagoniste di un universo femminile libero, spregiudicato, autosufficiente. Da una parte c’è l’attività ordinaria, dall’altra la creatività, la sperimentazione. Si fotografano l’un l’altra, corpi flessuosi che danzano con gli abiti disegnati da Anita Pittoni, stilista artigiana e studiosa di tessuti, che per qualche anno abita con loro.
Il trio è omogeneo, dirompente, l’atelier Wulz è un ritrovo di pittori, scrittori, intellettuali. Il femminile è sempre cercato ma si evolve, cambia, le donne fanno sport e nei sali d’argento si fissano corpi muscolari, inquadrature geometriche mentre nei primi piani gli sguardi prendono vita, gli occhi non guardano più un altrove. Negli anni ’30 Wanda approda al Futurismo attratta soprattutto dal fotodinamismo di Antonio Bragaglia. È l’unica donna accolta nella ristretta cerchia degli artisti della Mostra Nazionale di Fotografia Futurista organizzata a Trieste da Marinetti nel 1932 ma il rapporto resta complicato, il futurismo italiano, così violento, è anche profondamente misogino.

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QUESTO LUNGO PERCORSO, la storia dell’arte fotografica, di una famiglia e di una città, lo si percorre tutto nella mostra triestina con le trecento opere selezionate dall’archivio dello Studio fotografico Wulz oggi conservato negli Archivi Alinari. L’ultima immagine in mostra è la fotografia più conosciuta di Wanda Wulz: il suo autoritratto e il ritratto della sua gatta Mucincina, due negativi che Wanda sovraimpressiona e ne fa l’immagine straniante «Io + gatto» che l’ha resa famosa in tutto il mondo tanto che un paio di anni fa alla The New Woman Behind the Camera, mostra fotografica allestita al Metropolitan Museum of Art, tra le centinaia di immagini esposte due sono di fotografe italiane: una è «La macchina da scrivere di Mella» di Tina Modotti e l’altra è proprio «Io + gatto» di Wanda Wulz.



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