Sono dati obsoleti e imprecisi, quelli sul lavoro delle persone con disabilità, che se aggiornati con regolarità potrebbero essere la giusta base da cui partire per correggere il sistema. Dietro ai freddi numeri, poi, non va dimenticato che ci sono storie di persone frustrate da un mercato del lavoro che di fatto non le considera una risorsa. Oggi raccontiamo alcune esperienze di uomini e donne con disabilità che un impiego l’hanno trovato, ma che incontrano quotidiani ostacoli per svolgerlo al meglio
Il lavoro nobilita l’uomo. Non è soltanto un modo di dire, realmente avere un impiego retribuito consono alle proprie capacità e aspettative consente agli uomini e alle donne di avere un ruolo nella società, di sentirsi una parte attiva del Paese. Lo si dà troppo spesso per scontato, quando si arriva ad avere un’occupazione stabile ci si adagia nell’abitudine e si perde di vista l’importanza del lavoro, lo si vede solo come un mezzo per “portare a casa la pagnotta”.
La pensano in maniera diversa quelli che un impiego non ce l’hanno, che faticano a trovarlo, oppure che ne hanno uno sottopagato, vengono sfruttati e non hanno tutele in materia di sicurezza. Tra loro, le persone con disabilità che, malgrado la legge preveda siano incluse nel mondo del lavoro, in realtà per la stragrande maggioranza ancora devono vivere di sussidi e con il supporto economico della famiglia, il che allontana ancor di più la prospettiva di una vita indipendente.
Nonostante il tasso di giovani con disabilità che conseguono una laurea sia in costante aumento (dall’anno accademico 1999-2000 ad oggi il numero di universitari con disabilità è quadruplicato, passando da 4.443 unità a 17.073: dati ANVUR-Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), non si assiste ad un incremento significativo nelle assunzioni. Le più penalizzate sono le donne, malgrado il livello di istruzione più alto. Su tutti gli studenti universitari con disabilità, infatti, il 52,9% sono donne, il 47,1% uomini.
Molte aziende continuano a preferire il pagamento delle sanzioni all’inclusione lavorativa. Nel 2023, nella sola Lombardia, sono stati pagati 76 milioni di euro dalle imprese come “multe” per la mancata ottemperanza alla Legge 68/99 sull’inserimento lavorativo. Ventisei anni dopo la promulgazione di tale norma, se è vero che circa un milione di persone con disabilità è iscritto alle liste di collocamento (su 3,1 milioni di persone con disabilità stimate in Italia), soltanto il 35,8% ha un’occupazione per lo più dipendente (360.000), contro il 62% circa della popolazione generale.
Lo dice una ricerca del 2021 condotta dall’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) che traccia anche un identikit del dipendente italiano con disabilità: 59 anni l’età media (solo il 17,5% ha meno di 40 anni), uomo (per le donne la percentuale di occupazione scende al 26,7%), residente al Nord, con una percentuale di invalidità inferiore al 67%, percepisce uno stipendio medio annuo di 18.703 euro (per le donne 16.822 euro).
Sebbene, come precedentemente evidenziato, una laurea in tasca non garantisca un lavoro consono alla propria formazione, una forbice la definisce comunque il livello di istruzione: lavora il 63,5% dei laureati con disabilità, il 42,7% di chi ha il diploma superiore e soltanto il 19,5% di chi ha la licenza media. Tra i settori, la pubblica amministrazione impiega il 49,7% delle persone con disabilità occupate nel nostro Paese, il 27% è assunto nei servizi, il 16,9% nell’industria e il 6,4% nell’agricoltura.
Il primo nodo da risolvere riguarda proprio questi dati, obsoleti e quindi imprecisi, che soltanto se venissero aggiornati con regolarità potrebbero essere la giusta base da cui partire per correggere il sistema. Lo ha evidenziato anche Marino Bottà, direttore generale dell’ANDEL, nelle esaurienti trattazioni dell’argomento frequentemente curate per il nostro giornale.
Dietro questi freddi numeri non bisogna dimenticare che ci sono persone e storie, storie di fatica e persone frustrate da un mercato del lavoro che di fatto non le considera una risorsa e non le mette nelle condizioni di poterlo essere.
Desidero parlare di alcune esperienze che ho raccolto da uomini e donne con disabilità di mia conoscenza che un impiego l’hanno trovato, ma che incontrano quotidiani ostacoli per svolgerlo al meglio.
Cominciamo la carrellata con la ricerca del lavoro, nel caso specifico all’interno di un ente pubblico che per assumere nuovi impiegati e impiegate indice un concorso nel quale viene indicato come requisito indispensabile la patente di guida. Chi lavora in ufficio non necessita di guidare un’automobile, per recarsi al lavoro può essere accompagnato oppure utilizzare i mezzi pubblici. Quindi per quale ragione si richiede la patente? È la domanda che un dipendente con disabilità di quello stesso ente ha fatto alla dirigenza. In via ufficiosa gli è stato risposto che l’ente suddetto è già a norma per quanto riguarda la quota dei dipendenti con disabilità e non volendone altri, ha escogitato questo “cavillo” per escluderli a priori da possibili assunzioni, contando sul fatto che poche sono le persone con disabilità a guidare un’automobile.
Lo stesso “criterio” della patente viene applicato per la medesima ragione quando si tratta di avanzamenti di carriera. Alcuni, infatti, un lavoro ce l’hanno, magari da molti anni, hanno in tasca una laurea e acquisito competenze, pertanto meriterebbero uno ruolo di livello più alto con uno stipendio maggiore. Quel ruolo però viene negato, anche in questo caso senza fare rumore, perché una regola non scritta vuole che il dipendente con disabilità non abbia scatti di carriera, ma rimanga fermo nella posizione più bassa.
Altra esperienza raccolta, quella di una persona che per svolgere il proprio compito ha bisogno di uno specifico software con il quale il PC diventa accessibile. Arriva un aggiornamento del sistema operativo dei computer, occorre dunque un software aggiornato compatibile con la nuova versione del sistema. Senza questo il dipendente con disabilità non è autonomo, è costretto a chiedere aiuto ai colleghi i quali già devono fare il proprio lavoro, un po’ gli danno una mano, ma poi si stancano. Inoltra la domanda, le responsabilità vengono rimbalzate dalla dirigenza all’economato, fino ad arrivare all’ufficio informatico. Il dipendente a questo punto si dichiara disponibile ad acquistare il software e a presentare la fattura per il rimborso, gli rispondono che non è possibile.
Per diverso tempo questa persona con disabilità di mia conoscenza è rimasta a scaldare una sedia in ufficio o poco più, hanno preferito pagarla per non far nulla, piuttosto che metterla nelle condizioni di lavorare.
Questa è una storia a lieto fine, se è vero che pochi giorni fa è arrivata la comunicazione che l’acquisto del software è stato approvato e che presto il dipendente con disabilità potrà tornare alle sue mansioni in autonomia. Ciò non deve però far dimenticare il senso di umiliazione che ha provato per elemosinare uno strumento indispensabile, sentendosi in alcuni casi rispondere con tono impaziente e scocciato, la sua legittima richiesta trattata alla stregua di un capriccio.
In quanto ad umiliazioni penso anche ad una cara amica che da oltre vent’anni lavora presso il Servizio Sanitario Nazionale, benvoluta da chi si rivolge a lei, per lo più persone con disabilità o loro familiari. Ascolta i loro bisogni, non mette fretta nelle telefonate perché sa che dall’altra parte c’è anche il bisogno di essere ascoltati e capiti, non soltanto una fredda pratica burocratica da sbrigare. È in smart working, termine che letteralmente significa “lavoro agile”, ma che per la mia amica di agile ha ben poco. La sua sveglia, infatti, suona prestissimo, deve svolgere tutte le azioni che ognuno fa la mattina, alzarsi, lavarsi, vestirsi, fare colazione, muovendosi in sedia a rotelle e impiegando dunque più tempo del “normale”. Calcolando al minuto tutti gli spostamenti, alle otto può timbrare virtualmente il cartellino e iniziare il lavoro. Una pausa per il pranzo, poi di nuovo al PC fino a metà pomeriggio, quando finalmente può stendersi qualche minuto sul letto prima della fisioterapia che, essendo lei già parecchio stanca, non è efficace come dovrebbe. Comunque non si lamenta con i superiori e potrebbero anche arrivare piccole soddisfazioni, come quando un utente ha sottolineato ad una dirigente la gentilezza e la perizia con cui è stato trattato. Quella dirigente non ha trovato di meglio da dire che «è una donna molto provata», un commento pietistico che invece di gratificare ha voluto sminuire il lavoro e la professionalità della dipendente con disabilità, come se il suo modo di porsi affabile e disponibile derivasse unicamente dalle “disgraziate” condizioni fisiche.
È anche capitato che per mettere nelle “giuste” condizioni i dipendenti con disabilità, si sia pensato di riunirli tutti in un unico ufficio, adducendo motivi di “sicurezza” in caso di evacuazione di emergenza. Si era creato così un autentico “ghetto”, tra l’altro ben poco produttivo e quindi contro l’interesse dell’ente che aveva preso questa decisione. Già, perché ognuno di quei lavoratori con disabilità aveva un ruolo diverso e compiti differenti, ognuno aveva bisogno di stare nell’ufficio competente accanto ai colleghi che avevano le stesse mansioni. Erano tessere di tanti puzzle che non potevano congiungersi in un insieme uniforme.
Ho parlato di persone che un impiego ce l’hanno da svariati anni, ma a quanto pare non va meglio per i giovani con disabilità che oggi si affacciano al mondo del lavoro. Ne abbiamo scritto su queste pagine, in occasione della recente intervista alla ministra per le Disabilità Locatelli, fatta dai ragazzi e dalle ragazze della “redazione inclusiva di Jolly Roger”. Tra chi non trova nessuno che lo assume e chi viene “parcheggiato” in un centro diurno per riempire le giornate, è evidente che il sistema non va come dovrebbe.
Cosa bisogna cambiare? Ad esempio, l’assegno di invalidità che decade quando si supera una data soglia di reddito, andrebbe soltanto sospeso e non annullato. Così facendo, allo stato attuale, nei casi di lavoro a tempo determinato, allo scadere del contratto bisogna rifare da capo tutto l’iter per ottenere la pensione e questo risulta spesso essere un disincentivo.
C’è poi la formazione che deve essere davvero formante per tutti, in grado di innalzare il livello qualitativo del lavoro, mentre ad oggi i corsi destinati alle persone con disabilità sono incentrati su compiti semplici, di basso livello, il che va di pari passo con la consuetudine di collocarle in lavori con poche possibilità di crescita professionale.
Politiche capaci di guardare oltre la propaganda non sono una chimera, lo dimostra l’apertura nella direzione dell’inclusione lavorativa a cui si sta assistendo nell’ultimo periodo da parte delle grandi società con oltre 500 dipendenti. In queste realtà è aumentata sia la quantità che la qualità delle assunzioni delle cosiddette “categorie protette” che oggi sono impiegate per il 26% nel back office, il 23% in amministrazione, il 18% nel settore informatico, il 10% circa come addetti alle vendite.
Un tavolo di lavoro a livello nazionale guidato dalle grandi multinazionali che impiegano con successo dipendenti con disabilità potrebbe fare da traino per le piccole e medie imprese.
*Direttrice responsabile di Superando. Contributo elaborato con la collaborazione di Filippo Visentin.
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