Suicidio medicalmente assistito, in Toscana è legge

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Non esiste ancora una normativa nazionale sul tema, sono le regioni a dover gestire le richieste

Il Consiglio regionale della Toscana durante la seduta del 14 gennaio ha approvato una proposta di legge per regolamentare il suicidio assistito, o morte assistita, ai sensi e per effetto della sentenza n.242/19 della Corte costituzionale. Si tratta della prima regione a dotarsi di una normativa specifica sul tema.
Per suicidio medicalmente assistito di intende una procedura in base alla quale un terzo, in alcuni casi un medico, prescrive o fornisce a una persona un farmaco in grado di provocarne la morte, farmaco che il soggetto assume in maniera autonoma.

Ad oggi in Italia non esiste alcun diritto al suicidio medicalmente assistito. La sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale “si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati” (il soggetto agevolato si identifica in una persona affetta da patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli).
Nessuna legge nazionale definisce come debba avvenire il processo, a quali condizioni e con quali tempistiche, nonostante la Consulta stessa abbia sollecitato più volte il parlamento ad occuparsene.
Le regioni però, per competenza, devono poter gestire i casi di persone che chiedono di poter accedere al processo.

LA LEGGE TOSCANA: UNA PROCEDURA CON TEMPISTICHE PREDEFINITE

La legge approvata in Toscana stabilisce che i passaggi per la risposta a chi fa richiesta di accesso alla morte assistita vengano completati in 37 giorni al massimo. La normativa ha previsto tutti i passaggi: una commissione multidisciplinare valuterà le singole richieste in tempi prefissati, dopo aver ottenuto un parere dal Comitato etico territorialmente competente. In caso di esito positivo, l’azienda sanitaria locale avrà un’ulteriore scadenza per reperire il farmaco necessario alla pratica, così come eventuali macchinari necessari alla sua auto-somministrazione, e il paziente potrà decidere di interrompere o sospendere il tutto in qualsiasi momento.
Nel dettaglio le tempistiche previste sono: 20 giorni dati alla commissione multidisciplinare per verificare i requisiti; 10 giorni per definire le modalità del suicidio; 7 giorni assegnati all’azienda sanitaria per assicurare il supporto tecnico, farmacologico e sanitario per assumere il farmaco. Le strutture sanitarie dovranno garantire il supporto, l’assistenza e i mezzi per mettere in atto il suicidio medicalmente assistito: il farmaco, dunque, sarà pagato dalla Regione, che ha stanziato 10mila euro all’anno per il 2025, 2026 e 2027, considerando il servizio come un extra-Lea, finanziato col bilancio regionale. L’approvazione della legge (approvata con 27 voti favorevoli e 13 contrari) è stata oggetto di acceso dibattito.

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AIUTO AL SUICIDIO E SEDAZIONE PALLIATIVA PROFONDA

La sentenza della Corte costituzionale del 2019 decriminalizzò in alcune particolari condizioni l’aiuto al suicidio, fino a quel momento punibile in ogni caso con pene fra i 6 e i 12 anni di carcere. Sempre fino a quel momento, grazie alla legge 219 del 22 dicembre 2017 sul cosiddetto “testamento biologico”, in Italia era possibile chiedere l’interruzione delle cure e sottoporsi a sedazione profonda e continua (considerata parte integrante delle cure palliative), che induce uno stato di incoscienza fino al momento della morte. Non si poteva invece chiedere e ottenere un farmaco letale che permettesse di morire nel momento e nel modo in cui una persona sceglieva di farlo.

LE CURE PALLIATIVE NON SONO SEMPRE SUFFICIENTI

Al centro del dibattito su questa legge c’è stato il ruolo delle cure palliative (CP), e il rapporto tra le CP e l’Aiuto Medico a Morire (AMM).
Su questo tema si è espresso anche il Gruppo di lavoro “Per un diritto gentile”, con una memoria dedicata, disponibile qui.
In sintesi, il Gruppo, costituito da giuristi, bioeticisti, medici, palliativisti e altri professionisti impegnati nella discussione pubblica delle principali tematiche bioetiche nazionali, ha ricordato che le CP rappresentano una risposta fondamentale ai bisogni delle persone affette da patologie cronico-degenerative (oncologiche e non oncologiche), in tutto il percorso di malattia e, soprattutto, nelle fasi avanzate e terminali, ma non possono sostituire la richiesta di anticipare la morte.
Le CP prendono in carico le persone malate e i loro cari, attuando un controllo delle sofferenze globali (fisiche, psicologiche, sociali e spirituali) in sintonia con le preferenze e le volontà della persona malata. Le CP sono riconosciute dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come un diritto umano fondamentale in campo sanitario e sono un LEA del Servizio Sanitario Nazionale.
Come dimostrato dall’esperienza nazionale e internazionale, nonché dalla pertinente letteratura scientifica, la stragrande maggioranza delle persone in fase avanzata e terminale di malattia accetta di buon grado l’offerta di un accompagnamento palliativo, poiché le CP rispondono all’esigenza di controllare la sofferenza globale nella fase finale della vita, che questi pazienti intendono percorrere perché vi attribuiscono senso, valore e dignità.
L’esperienza clinica e i dati scientifici mettono però in evidenza come una minoranza delle persone in fase avanzata e terminale di malattia (4-10% dei decessi totali) non trovi una risposta adeguata nell’offerta e nella pratica delle CP. In questi casi, il reale bisogno e la correlata volontà del paziente sono di anticipare la morte, non trovando nelle CP un adeguato controllo della sofferenza (principalmente di natura psico-esistenziale) e, soprattutto, non trovando un senso, un valore e una dignità nel percorrere la fase finale della malattia in attesa della morte. Le CP, che per definizione non anticipano né ritardano la morte, non sono in grado di rispondere a queste richieste.
[…]
La stessa Corte Costituzionale ritiene che l’offerta e la disponibilità di un percorso di CP rappresentino un prerequisito per evitare domande ‘improprie’ di AMM, volte ad eliminare con la morte una sofferenza che il malato crede erroneamente di non poter altrimenti lenire. In alcun modo, tuttavia, le CP possono tramutarsi in una sorta di trattamento sanitario obbligatorio, in violazione dell’art. 32 Cost., cui sarebbe necessario sottoporsi per realizzare il proprio desiderio di accedere all’AMM.
Compito del legislatore non è sottoscrivere uno dei codici morali presenti nel Paese – ricorda ancora il Gruppo “Per un diritto Gentile” – neppure quello riconosciuto dalla maggioranza politica, ma regolamentare in modo da consentire la coesistenza e il pluralismo delle diverse etiche e modelli valoriali, individuando un punto di armonia ispirato ai princìpi costituzionali. È profondamente sbagliato sostenere che le CP siano in grado di eliminare tutte le richieste di AMM; questo uso strumentale delle CP, oltre ad andare contro l’evidenza dei dati presenti in letteratura, non rispetta la enorme e drammatica sofferenza delle persone che avanzano la richiesta di porre fine alla propria vita. Il dibattito pubblico ne risulta ostacolato e confuso e diviene più difficile l’attuazione di quanto stabilito dalle sentenze nn. 242/2019 e 135/ 2024 della Corte costituzionale.

L’AIUTO AL SUICIDIO NON È REATO

La Corte Costituzionale, con sentenza del 22 novembre 2019, n. 242, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati – agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

La Consulta, nelle motivazioni in diritto, ha dapprima chiarito come la tesi dell’illegittimità costituzionale, non potesse essere condivisa “nella sua assolutezza”, poiché l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è infatti di per sé incompatibile con la Costituzione o con alcune delle disposizioni contenute nella CEDU; tuttavia, la Corte ha individuato una circoscritta area di non conformità costituzionale nei casi in cui l’aspirante suicida si identifichi – come nella vicenda che ha determinato il coinvolgimento della Consulta – in una persona «affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
In tali casi, ha proseguito poi la Corte, “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost”.

LA POLEMICA DA PARTE DEL MONDO CATTOLICO

Inevitabile la polemica da parte del mondo cattolico: sulla legge hanno preso posizione prima prima i vescovi della Conferenza episcopale toscana con una nota e poi il loro presidente cardinale Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena, in una intervista ad Avvenire, che ha definito la legge una “ideologia inaccettabile”
Lo stesso Lojudice, a legge appena approvata, ha voluto esprimere il giudizio della Chiesa regionale: «Prendiamo atto della scelta fatta dal Consiglio regionale della Toscana, ma questo non limiterà la nostra azione a favore della vita, sempre e comunque – ha dichiarato il cardinale a nome di tutti i vescovi –. Ai cappellani negli ospedali, alle religiose, ai religiosi e ai volontari che operano negli hospice e in tutti quei luoghi dove ogni giorno ci si confronta con la malattia, il dolore e la morte dico di non arrendersi e di continuare ad essere portatori di speranza, di vita. Nonostante tutto. Sancire con una legge regionale il diritto alla morte non è un traguardo, ma una sconfitta per tutti».



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