Lavorare di più avvantaggia ciascuno, oziare danneggia tutti. Ovvio ed etico

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Il saggio di James M. Buchanan dimostra in modo assai convincente che coloro che fanno parte di un’economia sono più ricchi quando condividono un impegno etico a lavorare sodo di quando non lo condividono


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Per dieci anni, dal 1979 al 1989, ho insegnato Filosofia del lavoro nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste. I colleghi, specialmente gli amici, mi dicevano che insegnavo a prendere il lavoro con filosofia, cioè a lavorare il meno possibile. Non era vero; anzi; faticavo e facevo faticare di brutto i miei studenti, i quali in compenso prendevano il mio insegnamento con grande interesse. La domanda che ponevo loro a ogni inizio di corso sul senso e il significato che attribuivano al lavoro, generava discussioni animatissime, che per me costituivano una buona occasione per cercare di incrinare quella sorta di precomprensione stereotipata di tipo marxista, imperante allora nelle università, che peraltro aveva poco a che fare con le pretese “scientifiche” del materialismo storico marxiano e molto invece con un deciso rifiuto morale del capitalismo e dell’economia di mercato. Parlare di etica del lavoro significava allora parlare soprattutto di questo rifiuto, un po’ come oggi significa denunciare le cosiddette vergognose disuguaglianze. Sullo sfondo la stessa idea del pianificatore benevolente, più o meno pervasivo, che provvede al bene dei cittadini, forte della presunzione di conoscerlo meglio degli stessi interessati. Etica del lavoro, dunque, come pianificazione della giustizia e critica radicale del mercato capitalistico.

Inutile sottolineare i favori che questa prospettiva riscuote tra coloro che si occupano di economia, etica sociale o politiche pubbliche. Per fortuna però ci sono anche prospettive alternative. A tal proposito la casa editrice Liberilibri ha appena pubblicato un libro di James M. Buchanan, premio Nobel per l’economia nel 1986, assolutamente da non perdere: Perché dobbiamo lavorare di più e risparmiare di più. Il valore economico dell’etica del lavoro. 

Corredato da una bellissima introduzione di Alberto Mingardi, il volume raccoglie i testi di tre conferenze tenute da Buchanan all’Università dell’Oklahoma nel 1991. “La tesi di fondo – dice l’autore – è semplice: i vincoli etici e morali alla condizione umana hanno effetti economici rilevanti. Ne discende che, dati gli effetti economici di siffatti vincoli, le norme o i princìpi etici sono elementi determinanti rispetto al benessere di tutti noi, che facciamo parte della struttura economica”. Nulla di nuovo, si potrebbe dire. In fondo sappiamo benissimo da Max Weber quanto l’etica influisca sull’economia. Ma, rispetto a Weber, Buchanan sembra avere pretese molto meno ambiziose. Non gli interessa sapere se lo spirito del capitalismo dipenda dall’etica protestante, da quella cattolica o da un’altra ancora; gli basta mostrare la rilevanza economica di due norme elementari che solitamente associamo all’etica puritana: lavora sodo e risparmia.

L’etica del lavoro, alla quale si riferisce, non ha quindi nulla a che fare con questo o quel sistema di convincimenti, bensì con il banalissimo sentirsi in colpa da parte di colui che ozia quando potrebbe lavorare e sperpera quando potrebbe risparmiare. Una specie di istinto sul quale, come racconta lui stesso, incominciò a riflettere a partire da quella fatidica domenica del 1987, in cui, per poter guardare le quattro partite di playoff di football senza sensi di colpa, si mise a schiacciare le noci per tutto il tempo trascorso davanti alla televisione. “Ero chiaramente vincolato, dice, da un principio etico interiore che rendeva assai arduo seguire le mie preferenze”. Di qui la domanda fondamentale di tutto il saggio: “Coloro che fanno parte di un’economia sono più ricchi quando condividono un impegno etico a lavorare sodo di quando non lo condividono?”.

La risposta di Buchanan è chiaramente affermativa. Con argomenti che qui non posso riportare, egli dimostra in modo assai convincente qualcosa che, specialmente oggi, giova prendere seriamente in considerazione: “La scelta del singolo di lavorare di più giova agli altri; la sua scelta di lavorare di meno produce danni esterni agli altri. Lavorare più sodo va a vantaggio di ciascuno; oziare danneggia tutti”. La stessa cosa, secondo Buchanan, si può dire del risparmio. Consentendo un afflusso di risorse verso la produzione di beni capitali anziché di beni di consumo, il risparmio fa aumentare le dimensioni dell’economia, consentendo altresì un migliore sfruttamento della divisione e specializzazione delle risorse. Cresce di conseguenza “il valore economico del prodotto per unità di input e questo risultato fa sì che tutti i partecipanti a un’economia, siano essi lavoratori, risparmiatori o consumatori, diventino più ricchi a loro stesso giudizio”.

Questo in estrema sintesi il valore economico dell’etica del lavoro e del risparmio. Come ho già detto, siamo molto lontani dall’idea che l’etica possa rappresentare un metro critico sul quale misurare il sistema economico in quanto tale. A Buchanan interessa semplicemente dimostrare “la rilevanza economica” di determinate qualità morali. “Non si vuole insomma stabilire se l’individuo debba lavorare di più, risparmiare di più, dire la verità o mantenere le promesse; si dice solo che l’individuo, qualunque individuo, sarà ‘più ricco’, in termini di prosperità economica, se gli altri lavorano e risparmiano di più, mantengono le promesse e via dicendo”. Per questo, secondo Buchanan, se abbiamo a cuore la suddetta prosperità economica, vale persino la pena “pagare il predicatore giusto”.

 

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