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I sindaci nelle imprese il pasticcio del Mef che si può solo abrogare #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


«Art. 1 — Gestione dell’impresa. Le imprese di proprietà privata che dalla data del 1° gennaio 1944 abbiano almeno un milione di capitale o impieghino almeno cento lavoratori, sono socializzate. Sono altresì socializzate tutte le imprese di proprietà dello Stato, delle Province e dei Comuni nonché ogni altra impresa a carattere pubblico. Alla gestione della impresa socializzata prende parte diretta il lavoro. (…)». Questo è l’incipit del D.lgs. 12 febbraio 1944, n.375, emanato dal fascismo torvo e morente della Repubblica Sociale Italiana, in cerca di consensi tra i lavoratori. Il Decreto, solo blandamente attuato, fu prontamente abrogato dalla Repubblica che si dotò di una costituzione che prevedeva la prevalenza dell’utilità sociale e altre disposizioni limitative dell’iniziativa privata, ma più lievi dell’impianto fascista. Il desiderio da parte della politica di controllare gli “spiriti animali” del capitalismo non si è tuttavia mai sopito e nel dopoguerra ha preso forme disparate.

Il disegno di legge 2025 predisposto dal Mef

L’ultima in ordine di tempo — e non la meno bizzarra — la troviamo nel disegno di legge del bilancio 2025 predisposto dal Mef. L’articolo 112 prevede infatti di introdurre l’obbligo di integrazione della composizione del collegio di revisione o sindacale con un rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze relativamente agli enti, società, organismi e fondazioni che ricevono dallo Stato, anche in modo indiretto «e sotto qualsiasi forma», un contributo di entità significativa, definito per ora nel valore di 100 mila euro annui e da definire in seguito con decreto del presidente del Consiglio. Sono escluse dal provvedimento le società controllate o partecipate da regioni o enti locali. Questi rappresentanti del Mef, pagati dalle imprese ed enti vigilati, dovrebbero assicurare le necessarie attività di monitoraggio della spesa e di resoconto delle verifiche effettuate al Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, «in conformità alle direttive individuate dal Ministero dell’economia e delle finanze fornite al fine di garantire il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Infine, i malcapitati enti, organismi, società e fondazioni, dal 2025 non potranno effettuare spese per l’acquisto di beni e servizi per un importo superiore al valore medio sostenuto per le medesime finalità negli esercizi finanziari 2021, 2022 e 2023, come risultante dai relativi rendiconti o bilanci deliberati. «First reaction: shock!» avrebbe detto a ragione qualcuno. Vediamo di esaminare il provvedimento. Tanto per cominciare questo probabilmente si applicherebbe a decine di migliaia di società ed enti, perché la formula amplissima di sostegno pubblico può comprendere tutto: esonero dei versamenti dei contributi previdenziali per alcuni settori, per i giovani o nel Mezzogiorno, crediti d’imposta, esoneri dei contributi per nuove assunzioni, il finanziamento Nuova Sabatini per l’acquisto di beni strumentali, il Fondo Impresa Donna, il Fondo di Garanzia Pmi, il Piano Nazionale Transizione 4.0 e, insomma, chi più ne ha più ne metta.

I requisiti dei rappresentanti del ministero

I rappresentanti del ministero, poi, dovranno sperabilmente avere gli stessi requisiti di onorabilità, indipendenza e competenza dei sindaci. Dove troviamo un’armata simile? E se i pochi disponibili verranno oberati di lavoro, lasceranno scoperti i loro compiti al ministero, peraltro arricchendosi grazie ai compensi di sindaco. Per le società in cui la nomina dei sindaci è regolata da patti parasociali, peraltro, non si tratterà di sostituirne uno ma di aggiungerne un altro con aggravio di spesa e sconvolgimento di equilibri. Inoltre non c’è proporzione. Un’impresa di 200 milioni di fatturato che riceve 150.000 euro di aiuti, per una percentuale così irrilevante deve caricarsi il burocrate-controllore? D’altra parte, le Srl che non hanno il collegio sindacale e magari ricevono agevolazioni sostanziose andrebbero esenti dalla norma così come — con il solito faro illuminante del nostro ordinamento, l’istituto giuridico “a casaccio” — si salverebbero le società a partecipazione regionale e comunale. Differenze inspiegabili. Ma sono i compiti ad essere preoccupanti: come si può in una società privata che gode di una garanzia del Mediocredito Centrale controllare che i rappresentanti del Mef garantiscano «il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica»? Peggio ancora: quale logica sottostante sarebbe alla base per la famosa società da 200 milioni di fatturato e 150.000 di sgravi contributivi del divieto di «effettuare spese per l’acquisto di beni e servizi per un importo superiore al valore medio sostenuto per le medesime finalità negli esercizi finanziari 2021, 2022 e 2023»? È una norma-pastiche, un nonsense dadaista in linguaggio burocratico, un sogno di una notte di mezzo autunno diventato incubo. Si vuole produrre un po’ di lavoro per i notai che dovranno cambiare decine di migliaia di statuti in pochi mesi e per un esercito di spaesati burocrati che bloccheranno l’attività di imprese e fondazioni cercando di far rispettare obblighi impossibili. Non è una proposta da riformulare, la si deve solamente abrogare in toto, chiedendosi come possa essere venuta in mente a qualcuno.



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