Free speech sui social per evitare i dazi Usa. La retromarcia Uk

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La paura dei dazi fa novanta e nella guerra commerciale di Donald Trump al Vecchio Continente, gli inglesi si giocano le fiche più preziose nella delicata partita a poker che sta ridefinendo gli equilibri mondiali. Secondo autorevoli fonti della stampa britannica, il governo di Keir Starmer sarebbe disposto a riformare alcuni aspetti del controverso Online Safety Act, la legge finalizzata a regolamentare i contenuti online, ma che secondo i detrattori altro non sarebbe che una mannaia censoria da abbattere contro elementi perfettamente legali ma ritenuti “nocivi” dalle autorità pubbliche. Il provvedimento, di conseguenza, pone Londra e Washington su latitudini politiche molto distanti – l’America di Trump ambisce a diventare l’avamposto della libertà d’espressione – e a Downing Street una revisione della misura potrebbe tornare utile nella negoziazione sulle tariffe doganali. 

L’Online Safety Act è stato approvato nel 2023, presentando come pilastro fondante la tutela dei minori nelle interazioni via social per evitare la visione di contenuti inappropriati per la loro tenera età, specie se questi riguardano la pornografia, l’autolesionismo e il cyberbullismo. Non a caso, l’ex ministra per la Scienza, l’Innovazione e la Tecnologia, Michelle Donelan, aveva commentato: “Al centro di questo disegno di legge c’è la protezione dei bambini. Vorrei ringraziare i sostenitori, i parlamentari, i sopravvissuti agli abusi e le organizzazioni benefiche che hanno lavorato instancabilmente, non solo per portare questa legge al traguardo, ma per garantire che renderà il Regno Unito il posto più sicuro al mondo in cui stare online”. 

Le origini durante la pandemia

Tutti, verosimilmente, siamo d’accordo nell’introdurre misure finalizzate a proteggere i più piccoli dai pericoli che si annidano nei meandri della rete, ma non è tutto oro quello che luccica, secondo i critici del testo di legge. L’Online Safety Act ha cominciato a farsi largo nella testa dei legislatori di Westminster durante la diffusione del Covid-19 per limitare la narrazione alternativa su restrizioni e terapie che all’epoca inondava i social network, rappresentando un ostacolo all’attuazione dello politiche governative per la gestione dell’emergenza sanitaria. Passata la tempesta pandemica, si è pensato di stringere la presa delle autorità pubbliche sul controllo delle informazioni online, applicando un meccanismo volto a rimuovere contenuti “dannosi” seppur legali e mancanti del timbro di ufficialità del mainstream. La discussione a riguardo ha suscitato una levata di scudi da parte di cittadini e di quel mondo associativo che si batte per la libertà di parola tanto che l’esecutivo di Sua Maestà – all’epoca guidato dal conservatore Rishi Sunak – è stato costretto al dietrofront.

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Il diavolo, però, si nasconde nei dettagli ed ecco che al momento dell’approvazione, l’Act presentava dei cavilli secondo i quali le piattaforme del web devono applicare dei filtri per distinguere i contenuti innocui da quelli diversamente innocui (non specificando però in che modo), senza per forza bannare quest’ultimi. Il provvedimento prevede multe salate per le aziende di information and communications technology che non eliminano elementi esplicitamente illegali, ma per l’Electronic Founder Foundation – organizzazione non profit per la salvaguardia dei diritti digitali e della libertà di parola – i colossi dell’Internet potrebbero sentirsi sollecitati a censurare informazioni attendibili ma scomode, pur di non incappare in eventuali sanzioni. 

Trump, Vance e l’ideologia woke

Dall’altra parte dell’Atlantico, numerosi tribunali statunitensi hanno stabilito che le entità governative non possono imporre alle aziende operanti nel mondo social a comportarsi da agenti della psicopolizia di orwelliana memoria. Tale filosofia, dal 20 gennaio, permea lo Studio Ovale della Casa Bianca ed è motivo di attrito tra America ed Europa, come ha rivelato il discorso in cui il vicepresidente J.D. Vance, in occasione della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, ha accusato le élite del Vecchio Continente di stare distruggendo la democrazia attraverso programmi censori. Londra non fa eccezione e proprio l’efficacia dell’Online Safety Act parrebbe lo specchio che riflette, agli occhi di Trump e del suo entourage, il Regno Unito come un luogo distopico in cui l’ortodossia woke sembra farla da padrone. 

Se a tutto questo si aggiunge che la bilancia commerciale tra i due Paesi registra un surplus a favore delle esportazioni britanniche, la voglia di Trump di colpire con i dazi Londra è tanta, al punto che ha già annunciato tariffe del 25% sulle importazioni di metalli. Starmer ha già fatto trapelare la sua volontà di dialogo con Washington per allentare la morsa protezionistica e, così, i suoi consiglieri gli avrebbero suggerito di portare a un eventuale tavolo negoziale il controverso Act. Cosa potrà mai avere a che fare la regolamentazione dei social con la guerra commerciale? La risposta è semplice: Elon Musk.

Il ruolo dei social network

Il proprietario di X potrebbe essere il magnate delle Big Tech più colpito dalle multe sui contenuti digitali ora che la sua piattaforma ha assunto le sembianze di un’oasi in cui coltivare piantagioni di free speech. Un impegno di Downing Street a cambiare la legge potrebbe rasserenare l’animo di Musk – già scontratosi in passato con Starmer per l’insabbiamento della vicenda degli stupri perpetrati dalle gang di pakistani – che, a sua volta, potrebbe mormorare all’orecchio di Trump di manifestare maggiore clemenza nei confronti della Gran Bretagna. 

Staremo a vedere se nelle prossime settimane o mesi i laburisti torneranno sui loro passi riguardo al tanto controverso Act dopo averlo votato con grande entusiasmo insieme ai conservatori. Se così fosse dovrebbero spiegare, però, in che modo possono barattare la sicurezza delle persone a cui si sono appellati approvando una legge di cui tanti diffidano per i rischi di repressione, se poi sono pronti a sacrificarla per risparmiare qualche soldino. D’altronde lo sappiamo, business is business

Inevitabilmente, però, è opportuno fare una riflessione sul ruolo giocato dai social network nelle dinamiche politiche contemporanee dato che questa volta non stiamo assistendo al dibattito consueto sull’uso che viene fatto di questi, ma sulla possibilità che determinino le relazioni commerciali tra due nazioni. Lo scontro a cui stiamo assistendo tra i gruppi di potere che siedono sulle due sponde dell’Atlantico sta andando in scena perché entrambi sono consapevoli di come le masse oggi sfuggano ai presidi dell’infrastruttura dei media mainstream per rifugiarsi nelle agorà digitali dove finora non troppi filtri al pensiero critico sono stati applicati. Chi prevarrà non si sa, ma la trama che noi cittadini possiamo tessere attraverso l’ago delle interazioni social e il filo della nostra voce, diventerà un vestito che entrambe le parti cercheranno di indossare, magari per stringerlo o allargarlo, anche quando dovranno discutere di import/export come in questo caso. Siamone consapevoli!    

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