Cineterapia. La potenza etica della narrazione nel counseling filosofico

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Abstract

Vengono indicate le opportunità e i rischi dell’adozione del cinema e più in genere della letteratura narrativa all’interno di pratiche filosofiche come il counseling o di rapporti di cura come la psicoterapia o la psicoanalisi. L’obiettivo veritativo dell’esplorazione narrativa non è facile da saldare con la tensione a recare benessere al paziente o consultante. Inoltre viene spesso svalutata dai professionisti la componente etica del narrare, la qualità dell’alleanza autore-fruitore, il presupposto valoriale della voce narrante, le tattiche di nascondimento che il cinema adotta, l’intreccio antico tra mito e lógos.

Cineterapia. Un ossimoro? La doppia finalità della psicoterapia

Lo psicoterapeuta Gary Solomon pubblica nel 1995 The Motion Picture Prescription. Watch This Movie and Call Me in the Morning, Aslan Publ., Santa Rosa, California. L’idea è quella di utilizzare i film per curare disturbi mentali. L’assunto è che i film diano conforto e aiuto nella soluzione dei problemi vitali, sollecitando l’espressione di emozioni e la formulazione di nuovi punti di vista, che il rapporto psicoterapeutico può successivamente riprendere e approfondire. “Mi chiami domattina!”, la relazione latita e il racconto altrui dovrebbe riempire il vuoto. Che cosa succeda nella notte, non è detto…

Che i racconti curino, che leggere o narrare (scrivere un diario, tipicamente) faccia bene al fisico o alla mente, che andare al cinema o leggere un romanzo propizi il sonno o rafforzi la grinta diurna, è la presunzione che Kafka demolì una volta per tutte. Negli itinerari del lavoro di counseling rientra il contatto e, se necessario, l’urto con una verità necessaria. Il testo “formativo” non partecipa pertanto alle ingenue feste della letteratura:

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“Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se un libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev’essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo credo”.

Il termine “terapia”, si sa, oggi è inflazionato. Quando si vuole accreditare una pratica o un discorso lo si qualifica con gli attributi ricavati dalla religione secolare dominante, rappresentata dalla medicina, con i suoi sacerdoti e le sue liturgie laiche. Tutto sembra far brodo: tersicoreterapia, ludoterapia, arteterapia, musicoterapia, religio-terapia (ho letto che durante la preghiera i livelli di serotinina nel sangue aumentano…). Non stupisce che siano pubblicati volumi come quello di Silvia Adela Kohan, Biblioterapia e cineterapia. Libri e film per superare i momenti di crisi o per celebrare i momenti migliori, Ed. Morellini, Milano 2012 e di Paola Maraone, Cineterapia. 99 film che fanno bene al cuore, Sperling & Kupfer, Milano, 2008.

L’obiezione più rilevante riguarda la doppia finalità della psicoterapia, che non possiede sempre quell’avvertenza metodologica che invece il counseling filosofico dovrebbe vantare per definizione.

  1. Secondo un primo orientamento, l’obiettivo è quello di “stare meglio”. Si tratta di un obiettivo molto vicino a quello generalmente medico (ispirato al principio di beneficenza). La psicoterapia sarebbe un’altra modalità di difendere la vita e promuovere la salute (in questo caso psichica) del soggetto, sottoponendolo a un esame diagnostico accurato e poi suggerendo strumenti per guarirlo o almeno curarlo. Come? In diversi modi: sedazione del disagio, conforto della sofferenza, sostegno e lenimento del dolore, miglioramento della qualità di vita e del funzionamento sociale, potenziamento delle capacità di lavorare e di godere dei rapporti sociali. Insomma ciò che in questa ottica conta maggiormente sarebbe il benessere psicofisico.
  2. Vi è un secondo orientamento che sottolinea invece un obiettivo più filosofico: “conoscere la verità su di sé” o più pedagogico: “far evolvere in modo nuovo la personalità”. Con i termini dell’etica biomedica potremmo dire che è in gioco il principio di autonomia: togliere un soggetto dalla sua infantilizzazione, aiutarlo nella scoperta e plasmazione della sua identità individuale, garantirgli le condizioni di una scelta maggiormente libera, coadiuvarlo in una seconda crescita personale. Si tratterebbe di responsabilizzare il soggetto nei confronti dei suoi sentimenti, pensieri, conflitti attraverso una nuova esperienza relazionale (col terapeuta), nella quale vengano rimesse in questione le immagini di sé, le visioni del mondo, le credenze che sino ad allora lo avevano guidato e forse fatto ammalare. Occuparsi dei sintomi, ad esempio, significa in questa ottica non tanto toglierli o sedarli ma piuttosto anzitutto riconoscere, comprendere ed elaborare i tentativi contraddittori con cui il malato ha cercato di affrontare e dare un senso agli scacchi della vita: separazioni, alienazioni, contrasti. Tutto ciò nell’ottica di ampliare gli spazi di libertà e sostenere il soggetto in una ristrutturazione della personalità.

Nella Prefazione al volume di J. Holmes, R. Lindley, The Values of Psychotherapy, R.D., Karnac, London 1998, Hinshelwood, uno psicoanalista kleiniano, dichiara esplicitamente che il valore della psicoterapia è la conoscenza, non la felicità, e cita Freud, che voleva togliere l’individuo dalla miseria nevrotica e consegnarlo all’infelicità comune [sic !]. La psicoterapia sarebbe insomma una moral practice, nel senso di un’indagine all’interno del sistema valoriale del paziente, nonché una practice of a moral life e uno sforzo maturativo (p. XI).



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