Quella del pizzaiuolo è un’arte tra tradizione ed innovazione

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In Italia si sfornano ogni giorno 8 milioni di pizze, per un volume di affari pari a circa 5 miliardi di euro. Le pizzerie sono circa 40 mila, gli addetti al settore 100 mila (almeno quelli con regolare contratto, perché c’è poi tutto il mondo del nero e del sommerso), i quali raddoppiano nel fine settimana. Nel nostro Paese per preparare le pizze si consumano in un anno circa 200 milioni di chili di farina, 225 milioni di chili di fiordilatte e mozzarella e 60 milioni di litri di olio di oliva. Libri, siti web, blogger, giornali e televisioni inondano lettori e spettatori di immagini, storie, riflessioni su un piatto che è nato circa due secoli fa, ma che è l’erede di una ben più antica tradizione, la quale affonda le sue radici nelle civiltà mesopotamiche, nella Grecia e nella Roma antica.
La pizza, infatti, se ci si riflette, altro non è che un alimento contenitore, un disco edibile che accoglie altri alimenti. Il prof. Paolo Masi, un ingegnere chimico che ha insegnato a lungo Tecnologie Alimentari ad Agraria della Federico II, dove è ora Professore Emerito e dove è stato Preside di Facoltà e Direttore del Dipartimento, ha deciso che era arrivato il momento di realizzare uno studio scientifico che spiegasse bene i protocolli di cottura e fermentazione che stanno dietro questo prodotto, che desse notizie approfondite sugli ingredienti e risposte fondate sull’esperienza di laboratorio ad alcune domande emerse nel corso degli anni.
Luoghi comuni, dicerie e leggende metropolitane non risparmiano, infatti, neppure il più celebre tra i piatti della tradizione napoletana. Masi ha dunque messo in piedi un progetto di ricerca con colleghi di diversi Atenei, che è stato finanziato nel 2017 dal Ministero dell’Università. I laboratori sono diventati pizzerie nelle quali Enzo Coccia, il titolare de La Notizia, ha dato il suo contributo di esperienza nella preparazione degli alimenti da sottoporre alle verifiche sperimentali. Le analisi svolte durante il progetto sono sfociate in diversi articoli su riviste scientifiche. Da quell’esperienza di ricerca accademica è scaturita l’idea di un libro, che si chiama ‘L’arte del pizzaiuolo napoletano tra tradizione ed innovazione’. Si propone di divulgare ad una platea ampia di non esperti di chimica e tecnologie alimentari quanto è emerso durante gli studi di laboratorio.

La pizza all’ananas? “Non la demonizzo”

Il libro, al quale hanno collaborato 20 persone tra professori universitari e giovani ricercatori di diversi Atenei, è stato presentato il 9 febbraio nella Sala Cinese del Dipartimento di Agraria, all’interno della Reggia di Portici. C’erano, tra gli altri, il professore Danilo Ercolini, Direttore del Dipartimento, e Luciano Pignataro, giornalista specializzato sui temi dell’enogastronomia. Non sono mancate le sorprese nella relazione di Masi.
La pizza gluten free? “Più dell’ottanta per cento di chi la consuma non ne ha bisogno perché non è celiaco. È una moda che tanti seguono perché immaginano, erroneamente, di dimagrire. Se poi uno è davvero celiaco, sarebbe bene non andasse a mangiare in una pizzeria dove si preparano nello stesso forno le pizze normali e quelle senza glutine. C’è il rischio molto elevato di contaminazione ed il malcapitato potrebbe riportare conseguenze molto gravi”. La pizza all’ananas?Non la demonizzo. La dichiarazione di Patrimonio dell’umanità è relativa all’arte del pizzaiolo, non al tipo di pizza. Il fatto che si presti ad essere guarnita con una infinità di condimenti è il fattore di successo di questa pietanza. Anche con l’ananas, certo, purché il disco sia fatto bene e sia di qualità”.
Masi non ha eluso i tempi più spinosi, a cominciare da quello relativo alla produzione di acrilamide (una sostanza classificata come probabile cancerogeno umano) a causa delle alte temperature di cottura. Qualche anno fa se ne parlò in tv, nell’ambito di una trasmissione di approfondimento giornalistico. “Nel libro – ha detto – c’è uno specifico capitolo, nel quale si propongono anche soluzioni finalizzate a mitigare la formazione di tale sostanza. La quale, peraltro, è molto più presente in alimenti come le patatine fritte o la crosta del pane”.

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I contenitori per l’asporto

Altro tema spinoso: i contenitori per le pizze d’asporto. “È dimostrato – ha spiegato il docente – che i cartoni prodotti con carta riciclata possono rilasciare ad alte temperature e con liquidi (per esempio l’olio bollente) tracce di inchiostri, colle, vernici ed altre sostanze nocive. Per questo oggi si utilizzano sempre più contenitori differenti da quelli tradizionali. Essi sono rivestiti internamente da uno strato di alluminio e da uno strato di polietilene tereftalato”.
È vero che la pizza d’asporto non è mai buona come quella che si consuma in pizzeria? “Sì – ha risposto il docente – e lo confermano le valutazioni di un campione di consumatori ai quali abbiamo chiesto di esprimersi. Dipende dal fatto che il rapido calo della temperatura e la condensa che si forma nel cartone e che poi ricade sulla pizza rendono la pietanza gommosa”. Il rimedio proposto farà forse inorridire i puristi, ma Masi garantisce che funziona e che lo confermano prove ed esperimenti rigorosi.
“Con gli abbattitori nelle pizzerie si può ridurre drasticamente la temperatura della pizza appena sfornata. La si surgela, insomma, e la si consegna al cliente. A casa la si mette in forno di nuovo. Chi l’ha provata dice che la qualità è di poco inferiore alla pizza appena sfornata in pizzeria ed è certamente superiore rispetto a quella che esce bollente dalla pizzeria, ma poi si raffredda nei cartoni mentre la portiamo a casa”.
Fabrizio Geremicca
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Ateneapoli – n. 3 – 2025 – Pagina 8



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