La sussistenza della incapacità di intendere e volere

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L’attore intraprende giudizio civile domandando che la convenuta fosse condannata all’immediato rilascio dell’immobile tipo villetta a schiera, situato in Viareggio, libero e vuoto da persone e cose, in ragione del consolidamento, in favore dell’attrice, della piena proprietà dell’immobile di cui aveva acquistato la nuda proprietà con atto pubblico all’esito del decesso dell’alienante, che si era riservato l’usufrutto generale vitalizio.
La controparte chiede l’annullamento dell’atto di vendita per incapacità di intendere e volere del coniuge alienante, che – al momento della stipula – era affetto da una grave sindrome ansioso-depressiva per la quale era in cura con terapia farmacologica, patologia che si inseriva in un quadro di personalità già caratterizzata da ipodotazione di base e marcata tendenza alla proposizione di atteggiamenti passivi e di sottomissione verso le persone con le quali egli aveva relazioni interpersonali più strette.

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Il Tribunale di Viareggio condannava la donna al rilascio, in favore dell’ex marito del bene immobile oggetto di causa, libero da persone e cose, e rigettava la domanda riconvenzionale di annullamento proposta dalla convenuta.

Dalla documentazione non emerge la prova dell’incapacità di intendere e della sua sussistenza

Il Tribunale ha ritenuto che dalla documentazione prodotta dalla convenuta non emergeva la prova non solo dell’incapacità di intendere e volere al momento dell’atto, ma anche della sussistenza, nel periodo anteriore e nel periodo successivo alla data dell’atto, di una grave patologia menomamente della capacità intellettiva e volitiva del venditore, valorizzando una serie di elementi presuntivi nel senso dell’insussistenza dell’invocata incapacità, come il regolare svolgimento dell’attività lavorativa nel corso di più anni prima del decesso, la contrazione del matrimonio nell’anno 2003, la mancata rilevazione di alcuna anomalia da parte del notaio rogante, seppure aduso ad attenta verifica in siffatti casi.

Decidendo sul gravame proposto dalla donna, la Corte d’appello di Firenze conferma integralmente la pronuncia impugnata.

Nello specifico, secondo i Giudici di appello, correttamente il primo grado aveva ritenuto che la documentazione medica versata in atti, inclusa la relazione medica prodotta, non costituisse prova esaustiva e sufficiente della incapacità naturale parziale dell’uomo al momento della conclusione dell’atto di vendita.

Aggiungono anche che affinché potesse essere pronunciato l’annullamento, avrebbe dovuto trattarsi di una patologia avente i caratteri della gravità e soprattutto che avesse avuto un supporto probatorio univoco incontestabile, sia con riferimento al periodo anteriore alla conclusione del contratto, sia con riguardo al periodo immediatamente successivo, sicché sarebbe stato richiesto che la documentazione medica avesse comprovato l’esistenza del dedotto deficit cognitivo al momento della stipula dell’atto colpito dall’azione di annullamento.

Sarebbe stata anche necessaria la prova del tempo del manifestarsi del disturbo, che acquisiva un peso e un valore determinante ai fini della annullabilità dell’atto.

Il ricorso in Cassazione

La questione approda in Cassazione, che rigetta in toto (Corte di Cassazione, II civile, ordinanza 21 febbraio 2025, n. 458).

I Giudici di secondo grado, correttamente, hanno dato conto del fatto che la documentazione medica versata in atti, inclusa la relazione medica prodotta, non costituiva prova esaustiva e sufficiente dell’incapacità di intendere e volere naturale parziale al momento della conclusione dell’atto di vendita dell’immobile.

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Egualmente correttamente, i Giudici fiorentini hanno evidenziato che avrebbe dovuto trattarsi di una patologia avente i caratteri della gravità e soprattutto che avesse avuto un supporto probatorio univoco incontestabile, sia con riferimento al periodo anteriore alla conclusione del contratto, sia con riguardo al periodo immediatamente successivo.

La prova della sussistenza dell’incapacità di intendere e di volere

Ebbene, ai fini della sussistenza dell’incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio ex art. 428 c.c., non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente che esse siano menomate, sì da impedire comunque la formazione di una volontà cosciente. Per La prova di tale condizione è sufficiente accertare che queste erano perturbate al punto da impedirgli una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio e, quindi, il formarsi di una volontà cosciente, e può essere data con ogni mezzo o in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi per la sua configurabilità.

Ne consegue che i Giudici di merito hanno fornito adeguata e congrua motivazione delle ragioni di diniego dello stato di incapacità del soggetto.

Avv. Emanuela Foligno

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