Il lutto
Portato via da una malattia a 48 anni, faceva parte della factory di Massimo Minini: «Amava gli scatti che gli altri non fanno»
Il fotografo Paolo Novelli. Aveva 48 anni
Il fotografo Paolo Novelli. Aveva 48 anni
Una creatività febbrile e brillante, basata su disciplina, metodo e cellule grigie. La perdita dolorosa di Paolo Novelli arriva come una pugnalata assurda, anche se eravamo al corrente della sua battaglia contro la malattia. Ce lo aveva comunicato lui stesso la scorsa estate con lucida e spietata lucidità. Non si negava la speranza, ma sapeva che la clessidra del tempo è spesso crudele.
Era un classe 1976 il bresciano Paolo Novelli, nella pienezza di un’età che ha una spianata di aspettative davanti a sé. Aveva una personalità decentrata, tutta sua, viveva nell’ailleurs dei poeti e dei mistici, che è un cantiere appartato e rigoroso. È stato un diamante bianco della fotografia concettuale e di ricerca che si era guadagnato consensi anche a livello nazionale.
Da anni faceva parte della factory di Massimo Minini, gallerista autorevole che lo ricorda con commozione straziata: «Paolo – ci dice – era il fotografo più in sintonia con i temi e i linguaggio dell’arte contemporanea. Era affascinato dal magistero di Mulas e Giacomelli. Aveva giurato fedeltà al bianco e nero, amava le fotografie che gli altri non fanno, disdegnava la perfezione della tecnologia digitale. Per somma disdetta è venuto a mancare proprio sul nastro del traguardo, quando ce l’aveva fatta. A poche settimane da una grande mostra che lo avrebbe avuto come protagonista a Milano, corredata da un prezioso catalogo». Questo a ribadire un crescendo che lo scorso anno lo aveva portato ad esporre la sua opera al Miart di Milano e al Camera di Torino.
La forza delle idee
Fiero seguace dell’analogico (il suo credo minimalista era essenziale: nessun effetto speciale o luministico, nessuno zoom, obiettivo fisso 50 millimetri, come un occhio umano e mortale), Paolo Novelli ha ribadito il primato delle immagini sulle parole. Le immagini che possono dire ciò che sta fuori campo. Diceva a ragione Baudelaire: «Chi guarda stando fuori da una finestra aperta vede mai tante cose quanto colui che guarda una finestra chiusa». Una poetica la sua, che ammicca a Michelangelo Antonioni, il regista di un cinema esistenziale che ha raccontato la crisi dei sentimenti, il vuoto attraverso i silenzi, i volti, i «momenti morti» o notturni della quotidianità, sempre con la tavolozza variopinta del bianco e nero. Senza dimenticare la possente potenzialità espressiva del grigio, che è una tonalità viva, morbida e soffice. Anche la verità si trova spesso in una zona grigia.
L’accostamento con in grande regista ferrarese («La notte», «L’eclisse», «L’avventura»…) era particolarmente gradito a Novelli. «Antonioni – ci disse solo pochi mesi fa – è stato portavoce modernissimo di un neorealismo interiore. Anch’io sono attento alla diseducazione sentimentale, alle cause o agli effetti della incomunicabilità. Crediamo di poter risolvere tutto con la tecnologia, abbiamo eliminato il tabù della morte e abbracciato il feticcio del corpo performato… Quello che conta invece nella mia ricerca è il lavoro artigianale che si in una camera oscura esperta ed evoluta. Parafraso Picasso: fotografo non ciò che vedo, ma ciò che penso».
Paolo Novelli, artista attivo con i suoi fin dagli anni ’90, ha riflettuto sulla fotografia con la fotografia, ha raccontato la «qualsiasità» che sta sotto la soglia della percezione. Le sue immagini ci mettono di fronte a sculture cimiteriali, a tunnel, a notti nebbiose, a case con finestre chiuse e murate. Ricordiamo i titoli dei suoi progetti seriali: «Vita brevis», «Ars longa», ormai un classico, allestito nella Sala dei Santi Filippo e Giacomo (autunno 2003) a Brescia: un reportage all’interno di alcuni cimiteri monumentali del Nord Italia in cui le statue marmoree, sottoposte allo smeriglio delle intemperie e dello smog, acquistano una fisicità vitale e carnale impressionante a dispetto del luogo. E ancora: «La notte non basta, a capire» e «Il giorno non basta, a fuggire». A riprova che qualsiasi paesaggio, incatramato dal buio e o accecato dalla luce, condanna alla prigionia dell’esistenza.
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