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Gli impatti sociali e ambientali del “fast fashion” e la sfida dell’economia circolare #finsubito prestito immediato


“Gli australiani, secondo le statistiche, sono il Paese al mondo che fa più uso di fast fashion, basandoci su un calcolo pro capite”, dice Camilla Schippa, acting CEO di The Social Outfit, un marchio di moda con sede a Sydney che sostiene le donne rifugiate nella ricerca del primo impiego, ai microfoni di SBS Italian.

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Le ricerche condotte anche dall’Australia Institute nell’arco di due anni, dal 2022 al 2024, hanno mostrato che in Australia le persone acquistano in media circa 56 capi di abbigliamento all’anno. Nel Regno Unito 53, in Cina 30.

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Ma come mai l’Australia presenta un consumo così elevato?
“Ci sono molte ragioni per questo”, spiega Nina Gbor, direttrice del programma di Economia Circolare e Gestione dei Rifiuti presso l’Australia Institute e attivista nel campo della sostenibilità.

“Un motivo è che lo stile di vita australiano si basa su un parametro molto alto e, anche se stiamo attraversando un momento di crisi rispetto al costo della vita, siamo comunque la tredicesima economia mondiale. Abbiamo un grande potere d’acquisto e lo usiamo”, spiega Nina Gbor.

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Sarte al lavoro presso Arrival Fashion Limited a Gazipur, in Bangladesh. L’Unione Europea ha avvertito i consumatori di smettere di trattare i propri vestiti come oggetti usa e getta e ha annunciato un piano per contrastare l’uso inquinante del fast fashion. Il consumatore medio getta via 11 chili di tessili all’anno. (Foto AP/Mahmud Hossain Opu, Archivio) Credit: Mahmud Hossain Opu/AP

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Cosa si nasconde dietro ai prezzi bassi e alla produzione veloce? Spesso si pensa che basti acquistare capi “made in Australia” per avere la garanzia di un trattamento equo della manodopera, ma non sempre è così.

“La maggior parte dei capi prodotti in Australia oggi sono ancora prodotti secondo il modello pay per piece”, spiega Camilla Schippa.

“Le sarte, che spesso lavorano nei loro garage, non vengono pagate all’ora, ma si concorda un prezzo per ciascun capo cucito e, sebbene dovrebbero essere le lavoratrici a stabilirlo, sappiamo bene che sono i brand ad aver il coltello dalla parte del manico”.

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Cosa possono dunque fare i consumatori per invertire questa tendenza?
Secondo Mia Honigstock, che si è appena laureata in moda e design alla University of Technology di Sydney, è importante, per esempio, fare acquisti maggiormente consapevoli.
“Un’altra cosa importante è sostenere i piccoli brand australiani, ma anche essere attivi nelle campagne di informazione ed educazione alla consapevolezza”, aggiunge Nina Gbor.

Secondo Camilla Schippa è anche importante capire che la responsabilità va messa sull’industria della moda e non solo sui consumatori.

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Nina Gbor, direttrice del programma di Economia Circolare e Gestione dei Rifiuti presso l’Australia Institute e attivista nel campo della sostenibilità, negli studi di SBS a Sydney. Credit: Courtesy of Nina Gbor

Per far fronte a questo, l’Australian Fashion Council ha proposto e introdotto un programma denominato “Seamless”, che mira a trasformare l’industria dell’abbigliamento verso un modello circolare entro il 2030.

Lo schema prevede che ogni produttore che decida di aderire all’iniziativa debba pagare 4 centesimi per ogni capo immesso sul mercato. Se almeno il 60% dei produttori partecipasse all’iniziativa, si genererebbe un introito di circa 36 milioni di dollari da spendere nella gestione dei rifiuti tessili e dell’economia circolare.

Italian Migrants for Australian Fashion image

Secondo Camilla Schippa il limite di “seamless” risiede nella volontarietà del contributo.
“Il governo dovrebbe rendere obbligatorio all’industria di far parte di questa iniziativa”, afferma Schippa.

“Quattro centesmi per ogni capo immesso sul mercato non sono abbastanza”, aggiunge Nina Gbor”. “Ne servono almeno cinquanta”.

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